Tirare fuori dalla vasca un gatto, normalmente, è un gesto che comporta unicamente la rimozione delle proprie stesse mani dalla schiena del felino, ove erano state apposte con fermezza per immergerlo nel presentarsi del periodico frangente del bagnetto. Alla cessazione di un tale stato di gentile costrizione, l’animale lancerà immancabilmente un forte grido, a metà tra il soffio di uno stantuffo e la nota stridula di uno stonato pianoforte, per poi dardeggiare verso l’alto con le unghie sguainate ma, si spera, ben lontano dalla faccia del suo amato padroncino. Molto problematico, preferibilmente da evitare. Eppure tristemente, pienamente necessario. A meno di avere a disposizione un micio artificiale, perfettamente in grado di restare immobile per tempi brevi, medi o pure lunghi, senza neanche un lieve muoversi della sua coda. Come quello, bianco quanto l’osso, che la studentessa Changxi Zheng ci ha presentato l’altro giorno presso il suo canale, assieme alla stupenda evoluzione di quello che era e resta un approccio molto antico alla colorazione degli oggetti, ovvero la sospensione degli inchiostri sulla superficie calma di una vasca ad immersione. All’interno della quale o di una similare, molto presto costruita sulla base del principio qui mostrato, saranno assai probabilmente trattati gli oggetti che di più si prestano all’applicazione di livree: caschi, borchie o cerchioni, calci dei fucili, carene delle moto, strumenti musicali, scocche esterne per computer… Chi più ne ha, ne inzuppi, come biscotti incommestibili ma assai preziosi, per l’accrescimento del valore intangibile della personalizzazione individuale, prima o poi. Perché non è ancora il tempo di bagnarsi le mani: siamo in fase prettamente sperimentale, ovvero durante l’annuale conferenza del SIGGRAPH, l’occasione di presentare al mondo le ultime o recenti evoluzioni nel campo estremamente vasto della grafica virtualizzata. O come in questo caso, l’applicazione inversa della stessa cosa, cioè un processo, totalmente innovativo, che prende il concetto digitale della texture (la resa di un’immagine per così dire “spalmata” su dei solidi a tre dimensioni) e lo trasla nel mondo reale, facendo interagire le due tecnologie della scansione volumetrica e la stampa idrografica, per l’applicazione precisa al millimetro d’immagini di ogni complessità. Bisogna vederlo, per crederci.
Il video si apre con la dimostrazione dell’approccio classico, che consiste nell’impiego largamente manuale di una pellicola galleggiante biodegradabile, contenente un pattern grafico ripetuto ad infinitum. Con il dissolvimento dello stesso nel fluido trasparente per eccellenza, si genera un sottile velo variopinto, pronto a legarsi indissolubilmente con il primo oggetto solido che dovesse passarci attraverso, vedi quelli già citati, oppure come nel presente caso, la sagoma della VW Beetle che il pioniere dell’informatica Ivan Sutherland misurò famosamente nel 1972, destinata a diventare una figura standard nel campo della grafica tridimensionale. Una volta completata l’immersione, tutto ciò che resta è disperdere la vernice con un rapido colpo di mano, affinché in fase d’estrazione non si verifichino indesiderate sovrapposizioni. E il gioco è fatto! Tale tecnica specifica, oggi fatta risalire ad un brevetto registrato nel 1982 ad opera di Motoyasu Nakanishi, presenta grossi lati positivi: è più veloce e semplice dell’applicazione di un vinile, può impiegare stampe di quasi qualsiasi complessità o risoluzione, può durare (previa l’applicazione successiva di uno strato di vernice protettiva trasparente) per l’intera vita del prodotto sottoposto al trattamento. Ma ha una singola, enorme limitazione: l’allineamento del prodotto va necessariamente effettuato a mano, vista la fluidifica natura del medium di sospensione. Ciò significa che, essenzialmente, può essere impiegata solo nella realizzazione di figure senza dei confini definiti, come un succedersi di macchie in stile militare o l’approssimazione di un particolare materiale, vedi ad esempio le venature del legno, il marmo, oppure la spazzolatura del metallo. In campo automobilistico, l’idrografica è impiegata spesso per simulare nel veicolo degli accenti in carbonio, metallo estremamente leggero e resistente, spesso usato nei veicoli sportivi di fascia alta. Ma pensate per un attimo, adesso, di potervi approcciare a tale soluzione da un lato precedentemente inesplorato: quello dell’automazione a controllo numerico. Allora si potrebbe immergere nell’acqua una figura dalla forma anche complessa, allineandovi alla perfezione occhi, naso e bocca. Addirittura una coda serpeggiante di felino, a questo punto, potrebbe ricevere l’estetica fedele del leopardo. Anzi, perché immaginare, quando basta…
Il progetto reca le firme, oltre a quella della già citata Changxi, probabile commentatrice nella sua accentata ma funzionale lingua inglese (e credeteci o no, sotto al video abbondano le critiche per “una grande azienda che usa portavoce tanto inefficienti”) di Kun Zhou, anch’egli dell’università dello Zhejiang, presso le coste centro-orientali della Cina, del loro relatore Yizhong Zhang e di Chunji Yin, qui qualificato come appartenente alla Columbia University, forse uno studente in visita, chissà. Nasce dal bisogno, mai esistito prima di quest’epoca, di avere un metodo per abbellire degli oggetti realizzati in modo completamente automatico da un pubblico di hobbisti o appassionati, tramite l’impiego della sempre più popolare stampa tridimensionale. La quale presenta, almeno nella sua versione attuale, il grande limite di produrre oggetti rigorosamente monocromatici, spesso di un bianco assolutamente accecante nella sua mancanza di dettagli.
Così, l’idea: ciò che è stato disegnato in origine all’interno di un computer, presenta una forma già nota fino al decimo di centimetro, quindi idonea all’allineamento tramite un sistema di guide, per mettere in atto una versione estremamente futuribile del vecchio processo della stampa ad immersione. La squadra ha usato, come supporto di scansione ulteriore, il sistema Microsoft della telecamera Kinect, in grado d’impiegare una matrice di raggi ad infrarossi per misurare la distanza da una superficie o corpo in movimento (originariamente doveva servire per i videogiochi, ma il risultato in quel campo è stato alquanto deludente). Così facendo, in un numero variabili d’immersioni si può ottenere l’applicazione straordinariamente precisa dell’immagine scelta, senza limiti teorici di complessità. Seguono, nella dimostrazione, una maschera, una zebra e la versione fisica della lepre di Stanford, un altro celebre modello standard per le prove tridimensionali, normalmente intrappolata nel suo mondo di vettori virtuali. Viene anche realizzato un curioso bicchiere con la testa d’elefante, utile a prendere il caffé con stile. Manca purtroppo, invece, la famosa teiera dello Utah, modellino incluso nella maggior parte dei programmi tridimensionali. Forse il suo manico curvilineo e toroidale si era rivelato troppo, persino per un sistema di stampa così avanzato?
La storia della pittura ad acqua, generalmente utilizzata per creare figure astratte sulla carta, può essere fatta risalire fino al decimo secolo, epoca in cui l’ufficiale confuciano Su Yijian (957-995) ne parlò all’interno del suo testo Fang Si Pu, I quattro tesori dello studioso. Tale metodo veniva praticato nell’accademia di Hanlin del Sichuan cinese ed era tenuta in alta considerazione dalla corte imperiale, perché costituiva l’incontro quasi alchemico tra almeno tre degli elementi della filosofia estremo orientale: l’acqua, la terra (ovvero gli elementi chimici dell’inchiostro) e il legno, da cui proveniva direttamente il particolare tipo di carta detta “della sabbia che scorre” (liu sha jian). Mutuato dai giapponesi del quindicesimo secolo, l’approccio prende poi il nome di suminagashi e diventa il fondale preferito d’innumerevoli calligrafi e poeti. Si dice che l’artista Jizemon Hiroba, vissutto attorno al 1100 d.C, avesse viaggiato a lungo per il paese dei kami, alla ricerca di un’acqua con il potere di trasferire i suoi sentimenti sulla carta, trovandola infine presso Echizen, nell’odierna prefettura di Fukui. In questo stesso luogo, i suoi discendenti producono carte marmorizzate da un periodo di 55 generazioni. L’evoluzione ad oggi più famosa di quest’arte resta ad ogni modo quella immediatamente successiva, forse inventata in modo indipendente oppure appresa e ricreata a partire dalle merci d’importazione, che a partire dal 1500 ca. iniziò a fare la sua comparsa nell’Asia Centrale e in buona parte del mondo musulmano. Il metodo aveva il nome di kâghaz-e abrî, dicitura che significa letteralmente “carta nebulosa”. Questa pittura ad acqua, nota dalla Persia dei Safavidi fino ai Mughal dell’India, introduceva almeno una significativa novità: l’impiego di sostanze con basi vegetali come l’Astragalus o la trigonella, allo scopo di creare una sorta di mucillagine, sulla quale far fluttuare in modo stabile l’inchiostro. Tale approccio si prestava particolarmente alla creazione di figure le astratte o soltanto vagamente naturalistiche, di uccelli, nubi o fiori, da sempre particolarmente care all’arte dell’Islam. La tradizione più recente, da cui è stata creata direttamente la moderna stampa idrografica, risale invece solo al diciannovesimo secolo, e proviene dalla tradizione turca dei Sufi Naqshbandi. Prende il nome di ebru e si giova dell’uso della trementina, l’oleoresina volatile dell’albero del terebinto.
Oggi, le logiche dell’economia di scala hanno relegato in secondo piano le antiche tecniche artigianali per la produzione del bello in quanto tale. Ma determinate soluzioni permangono, a vantaggio della creatività e del desiderio di creare cose nuove. In quest’ottica, l’integrazione del computer con gli antichi metodi della pittura ad immersione non va certamente vista in luce negativa. Potrebbe costituire, dopo tutto, solo un altro tipo di pennello.
– Link diretto all’articolo accademico del progetto, come riportato in calce al video