Prima che inventassero le vertigini, quando i palazzi ancora non avevano antenne paraboliche, inferriate automatiche, videocamere di sorveglianza. Ma guarda: gli stessi muri che campeggiano ancor oggi, immobili e immutati, tranquillamente in attesa di colui che fosse tanto folle, o coraggioso, da scalarli fin sopra le nubi con l’unico scopo di poter gridare: “Sono io, sono il re.” Si, però di cosa? Della giungla? Di un mondo in bilico tra le due guerre, da princìpio e ancora prima di poter dirsi famoso, guadagnandosi nomignoli come “Il Tarzan di Brooklyn”, “La mosca umana” o “Il fantasma volante”. E ci sarebbero voluti ancora molti anni, occupati da una scintillante carriera tra i tendoni viaggianti e un carico di tigri ed elefanti, perché il circo di Larry Sunbrock potesse vantare sui suoi manifesti la presenza di un pezzo davvero da 90: “Ciampa, la scimmia che oscilla [a parecchi metri da terra]”. E non fu certo un caso, se fu proprio quello il nome scelto all’apice del suo successo. Per tutte le macchine che abbiamo costruito, sotto i tetti e sopra i ponti dei propositi e dei corsi delle circostanze, ciò che ci caratterizza resta soprattutto quello: due mani, due gambe e quattro estremità, variabilmente prensili, di cui almeno un paio funzionali all’apertura di una splendida banana. E quelle assieme alle altre, assieme valide ad arrampicarsi. Come l’italo-americano nato nel ’22 facente di nome John. L’uomo, il primate. Il profeta di quella disciplina che sarebbe stata codificata, soltanto nella Francia di molti anni dopo, con il termine de L’art du déplacement (l’arte dello spostamento).
Pensa. Un creativo di fama prende un limone e lo mette sopra un piedistallo ornato, affermando: “Questa è una metafora della complessa condizione umana.” E ciò genera, tra i circoli dei critici del suo settore, fiumi di parole ed ambiziose discussioni, corroborate da un supporto filosofico di alta accademia. La società degli individui di cultura, o almeno chi tra loro segua simili questioni, ne esce corroborata ed in un qualche modo più ricca, più consapevole del suo contesto dei momenti successivi. Di chi è davvero, il merito di un simile successo? I piedistalli esistono da secoli, così come gli agrumi. Dunque non è stato certo il primo caso di un simile incontro tra le parti gialla e verticale, tanto pregnamente giustapposte da costui. Così dovrebbe dirsi del parkour, il rutilante, sobbalzante insieme di movenze, tecniche ed approcci al pericolo, che oggi sorregge una valida serie di valori del mondo moderno, esemplificati attraverso letteratura, cinema, fumetti e videogiochi (non si può, non mi riesce d’ignorare l’ultima categoria) la cui nascita è soavemente difficile da collocare. Che fu inventato, forse, in ambito militare, dall’insegnante di educazione fisica Georges Hébert (1875-1957) che credeva nella preparazione dell’individuo ad essere utile in qualsiasi situazione d’emergenza, grazie all’impegno quotidiano lungo un susseguirsi degli ostacoli in sequenza, quelli che sarebbero poi diventati le tipiche palestre all’aria aperta dei moderni parchi cittadini. Oppure nacque, in netta contrapposizione, dalle gesta spontanee di Raymond Belle, figlio di un dottore francese ed una donna vietnamita, separato dalla sua famiglia a causa della prima guerra indocinese (1946) che per imparare a sopravvivere tra le strade di Da Lat s’introduceva abusivamente nelle basi militari, usando in gran segreto quei circuiti di pioli, pneumatici e filo spinato. Perché non c’è parkour, senza un certo grado di ribellione e spirito contrario alle comuni norme della società civile. Ma bando al romanticismo: in quel regimento dei sapeurs-pompiers dell’esercito di stanza in Vietnam, lui quindi s’arruolò, diventando celebre come campione di scalate nelle dimostrazioni pubbliche di abilità.
Il parkour come pura arte, ovvero fine a se stesso o all’elevazione filosofica dei suoi fruitori (osservatori, presunti emulatori) arrivò soltanto con il figlio di quest’ultimo, quel David Belle nato nel 1973 a Fécamp in Francia, il fondatore e mente del famoso gruppo Yamakasi (dalla dicitura congolese ya makási, la “forza dell’individuo”) Che creò la serie di regole e precetti comportamentali che oggi formano la prassi operativa della disciplina. Ma se il filo conduttore ufficiale è questo qui narrato, che dire di tutti quegli altri, coraggiosi, scriteriati, folli scalatori delle mura certamente pre-esistenti? Accidentali scopritori, semplici scavezzacollo…Beh, a giudicare delle imprese su pellicola di quel John Ciampa, direi proprio di no.
Questo affascinante video, ricomparso ieri su Reddit e modificato con l’aggiunta di una colonna sonora contemporanea, è tratto dal film-documentario del 1977 Gizmo! di Howard Smith, basato sulle immagini di repertorio dei cinegiornali e finalizzato alla dimostrazione di una ricca serie d’invenzioni, stranezze e imprese delle due o tre generazioni appena precedenti. Tra queste, le strane scalate di quell’italo-americano, che fu a suo tempo una piccola celebrità dell’intera city di New York nonché di buona parte degli Stati Uniti e per inferenza anche l’Europa. Era casualmente accaduto infatti, con l’uscita del film del 1942 Tarzan a New York (Richard Thorpe) che i produttori della Paramount pensassero di abbinare la proiezione tipo con un segmento realizzato ad-hoc delle imprese di Ciampa “La mosca umana” in quegli anni molto attivo per pubblicizzare gli spettacoli del suo circo di appartenenza, il già citato Sunbrok. Guardando la sequenza a posteriori, la somiglianza con le scalate, soltanto leggermente più moderne, dei pompieri franco-vietnamiti di Raymond Belle, e poi l’intero gruppo culturale nato a seguire dalle imprese del gruppo Yamakasi è lampante. Compare il tipico gesto della corsa in verticale lungo un muro, seguita dall’afferrare la cima dello stesso per tirarsi su. Quindi Ciampa scala le pareti di una stretta nicchia, puntellandosi con mani e piedi, prima da solo e dopo con tanto di bambino sulle spalle. Ma non finisce qui. Nella versione della scena impiegata per il documentario del ’77, i suoi exploit vengono integrati con quelli dello stuntman francese Arnim Dahl, che salta da un treno e poi rotola giù da un dirupo dentro uno pneumatico da camion (il precursore di…Jackass?) Davvero, a quei tempi si viveva senza alcun timore delle conseguenze.
E si tratta di una questione tutt’altro che insolita, anzi, fondamentale alla comprensione del modo in cui funziona il progresso tecnico e culturale dell’intera civilizzazione. Se osserviamo le moderne meraviglie tecnologiche, è facile lasciarsi trascinare dalla convinzione che mai, prima d’ora, si sia vissuta un’epoca più proiettata verso il futuro. Ma pensate per un attimo all’epoca delle due guerre, quando non soltanto una contenuta elite di coraggiosi, ma intere fascie della popolazione si ritrovavano (per triste necessità) all’interno di velivoli volanti, sommergibili corazzati, pericolosi mostri di metallo cingolati. E alla lunga epoca successiva, quando la contrapposizione tra due super potenze giunse, per il solo bisogno di mostarsi forte alla rivale, a far poggiare il piede di astronauti fin sul suolo sabbioso della Luna! Erano passati esattamente 66 anni dal primo volo a motore.
Perciò, si può davvero dire che un determinato gesto sia significativo solo quando è il frutto della sua cultura coéva? Cinquanta, sessant’anni prima dell’invenzione dei termini parkour o free running, la gente già correva in verticale sopra le pareti. Come assai probabilmente, anche 200 e 600 anni fa. Se non si toglie il limone dal metaforico piedistallo di cui sopra, sarà davvero difficile, in un tale clima di assoluto sincretismo arrampicatorio, sfatare il vecchio mito di chi viaggia nello spazio-tempo.
1 commento su “Anni ‘30: l’italiano che precorse il parkour”