Punta di freccia degli antichi automi giapponesi

Karakuri

Se dico Toshiba, oggi, si tende a pensare subito ad alcune popolari serie di computer portatili e ultrabook, oltre che ad alcuni tablet e televisori, forse meno popolari delle alternative maggiormente pubblicizzate in Occidente, ma comunque certamente validi allo scopo. C’è questa moderna tendenza, molto diffusa, a dare ciò che è tecnologico del tutto per scontato. La nostra vita è circondata dalle meraviglie: piccoli rettangoli di vetro e plastica che lanciano la nostra voce oltre le orbite del cielo, macchine da scrivere integrate con strumenti per la virtualizzazione di scenari per la crescita intellettuale. Ci sono cose splendide e assolute, come i principi filosofici dell’arte, che mutano e si adattano all’incedere dei secoli. Mentre altre maggiormente specifiche, col tempo, resteranno perse in mezzo alle radici: di un tempo, una canzone, l’opera di colui che poteva dare una vita ulteriore alle marionette, vedi: il celebrato Karakuri Giemon, al secolo Tanaka Hisashige, inventore quasi leonardesco vissuto sulle soglie del 1800, che per una questione meramente cronologica viene piuttosto paragonato a Thomas Edison, collega americano. Tra la nascita del giapponese e quella dell’americano, in effetti, intercorsero esattamente 48 anni, e i due furono operativi in tempi coévi, benché il primo ormai da veterano aiutante di un Giappone appena entrato nell’epoca moderna, mentre il secondo ancora presentava il suo primo brevetto in concessione, per un dispositivo elettrico di voto. Ma cosa, potrebbe venirci dunque da chiederci, ci ha lasciato la figura di quest’uomo nato a Kuruma, nell’attuale prefettura di Fukuoka? Ad una prima analisi, già si palesano diverse cose: la prima è quella citata in apertura, la multinazionale formatasi a partire dalla fabbrica Tanaka del quartiere Ginza, nell’allora già rinominata vecchia Edo. Dove stando a quanto dicono, nascosto al secondo piano di un tempio buddhista, l’uomo già sapeva rispondere alle richieste di un pubblico mai conosciuto prima: la nuova e più civile borghesia. Lui, che per un lungo periodo aveva costruito balocchi per i pargoli degli ultimi daimyō incatenati, ovvero l’aristocrazia guerriera costretta, attraverso la vecchia legge del sankin-kōtai, a vivere per molti mesi l’anno presso Kyoto, sotto l’occhio scrutatore dello shogun Tokugawa. E non è certo un caso se un simile provvedimento, in atto ormai da più di due secoli, ricordasse tanto da vicino quell’altra prassi di Louis XIV, il Re Sole con la sua Versailles. Attraverso le culture di ogni epoca e paese, l’unico modo per imporre uno stato di quiete negli ambienti di chi ha sempre guerreggiato, è sostituir la spada, con qualcosa d’altro. Di meno diretto, appuntito, eppure stranamente conturbante. Così fu il Barocco, all’altro lato del più vasto continente, come l’arte raffinata del confucianesimo e del buddhismo Chan (Zen) riscoperto, gradualmente, dai pittori e dai poeti samurai. Ed…Altre cose.
Vederlo oggi, significa in un certo senso respirare almeno in parte quell’aria di soave meraviglia, il senso dei minuti che sembravano fermarsi e germogliare: lo yumi-hiki doji, o giovane arciere, muove con sicurezza la sua mano destra, verso la faretra da terra tipica del tiro con la corda giapponese. Nel frattempo, con l’arco saldamente stretto nella sua sinistra, accenna un curioso movimento, simile a una sghemba riverenza. Sarà alto, grosso modo, una trentina di centimetri, più l’alta base cubica su cui graziosamente siede. L’espressione improbabile del suo volto, truccato secondo la prassi ormai desueta dell’antica nobiltà imperiale, accentua le qualità surreali della sua sequenza operativa. A quel punto, delicatamente, il piccolo pupazzo incocca il dardo fortunatamente innocuo, piega un po’ la testa per far sembrare che stia prendendo la mira. E dunque, scocca e poi colpisce… Nel kit originario, gelosamente custodito presso il museo Edo-Tokyo di Ryogoku,Tokyo, è incluso un elaborato bersaglio con un gong metallico, il cui risuonare, indubbiamente, faceva seguito alla gioia e alle risate degli spettatori, divertiti e indubbiamente lasciati un po’ increduli dallo spettacolo dell’incredibile ingegno degli umani. Il termine dalla grafia variabile karakuri (che può essere scritto in alfabeto sillabico katakana, oppure usando l’abbinamento di kanji: 絡繰り, 絡繰, 機巧, 機関, o addirittura 唐繰) si riferisce ad una ricca serie di bambole o pupazzi meccanici della tradizione giapponese di epoca Edo (1603-1868) il lungo periodo di pace seguito alla catartica battaglia di Sekigahara, quando essenzialmente il metodo di vivere dei vecchi samurai venne istantaneamente sublimato, in un’unica giornata di combattimenti tra i più forti e grandi nobili del tempo. Da cui emerse il nuovo ordine di un paese chiuso ad influenze esterne, in cui le spade, piuttosto che diventare aratri, vennero poste sopra gli alti piedistalli delle case, venerate come simbolo di un modus vivendi altrettanto crudele ed affilato. Ma il tempo passa e stempera persino il tamahagane, l’acciaio più prezioso. Così, nel giro di appena un paio di generazioni a partire dal 1600, ebbe a trasformarsi ciascun vecchio condottiero: in un sincero mecenate delle arti. Statico fino al successivo varco di un profondo cambiamento. Destinato a verificarsi, guarda caso, proprio all’epoca di Karakuri Giemon.

Karakuri 2

Il giovane pazzo per gli automi, così come Hokusai lo era stato per la stampa xilografica, ebbe a farsi conoscere fin dall’età di 20 anni, quando, da figlio di un artigiano di prodotti in guscio di tartaruga, iniziò ad inscenare degli spettacoli di marionette innanzi all’officina della sua famiglia, presso la natìa Kuruga. Era il 1819 o giù di lì. A quanto viene riportato online, già all’epoca lui disponeva di una sorta di palcoscenico, costruito sul modello di quello del teatro kabuki, presso cui era solito disporre le sue ultime invenzioni. E la gente accorreva, fin dalle città vicine, per assistere alla messa in funzione di alcuni degli automi più incredibili di quel paese, ed in effetti, a pensarci, dell’intero mondo di allora. Tra le sue creazioni, figurava una particolare reinterpretazione della classica zashiki, o bambola in grado di servire il tè. Un particolare tipo di pupazzo meccanizzato con le gambe mobili, ma spinto innanzi da piccole ruote nascoste sotto il kimono, che si occupava di spostare lungo un tavolo una piccola tazzina della tiepida bevanda, importante ausilio conviviale ma anche un fluido dal profondo senso rituale. Pupazzo il quale, nella versione di Tanaka, per la prima volta raggiungeva la destinazione “Senza versare una singola goccia” A tal punto furono efficaci i suoi miglioramenti al meccanismo! Ma questo non era che l’inizio. Tra gli altri protagonisti dei suoi spettacoli karakuri, oltre a versioni preliminari della bambola arciere, figuravano degli incredibili automi calligrafi, in grado di tracciale forme complesse dei caratteri per la parola “bello” oppure “primavera” un po’ come i famosi automi scrivano e disegnatrice di Pierre Jaquet-Droz (1721-1790) oggi parte della collezione del Musée d’Art et d’Histoire of Neuchâtel, in Svizzera. Ma un conto è scrivere lungo una linea attentamente definita, oppure tracciare l’immagine di un cagnolino. Un altro è infondere nel moto del pennello lo spirito complesso del proprio sofisticato intento calligrafico, attraverso l’imperfetta mano dell’agente artificiale!
A partire dal 1834, si trasferì ad Osaka, dove iniziò a fare esperimenti di pneumatica, idraulica e fusione del metallo. Costruì dei magnifici orologi e un nuovo tipo di lampada ad olio, praticamente impossibile da spegnere accidentalmente. Si interessò quindi al campo dei rangaku, i cosiddetti “studi olandesi” giungendo a conoscere, almeno in parte, la scienza proibita degli occidentali. Ma il clima di progressivo disagio causato dall’instabilità politica e organizzativa del paese che si stava avviando verso la Restaurazione Meiji  l’indusse, , dopo un certo numero di anni, ad accogliere l’invito del samurai Sano Tsunetami a recarsi presso la corte del feudo di Saga, nel distante Kyushu sud-occidentale. Negli anni successivi, Tanaka fece l’inevitabile passo di molti dei più brillanti inventori di ogni epoca antecedente a quella moderna, mettendosi al servizio della guerra e dei potenti. Lavorando per il signore locale Nabeshima Naomasa, rivoluzionò il concetto di forgia giapponese, dirigendo i lavori per la costruzione delle prima locomotiva e nave a vapore nazionali, oltre che la migliore imitazione straniera dei più temuti e moderni cannoni americani, le Armstrong Guns. Soltanto a quel punto, il suo genio fu riconosciuto in modo universale.

Myriad Clock
Gli orologi giapponesi del tipo wadokei (nazionale) dovevano far fronte a problematiche particolari. Il sistema orario tradizionale dell’Estremo Oriente, che usava il nome di animali per riferirsi al numero di ore trascorse dall’alba o dal tramonto, non era fissa nel corso dell’anno, ma variava assieme alle stagioni. Per questo, si doveva ricorrere al meccanismo relativamente arretrato della ruota a corona, che poteva essere facilmente rallentato o velocizzato tramite l’aggiunta di una serie di pesi concepiti a tale scopo.

Quella di Giemon è una figura tenuta in alta considerazione nella storia della tecnica giapponese, non soltanto per l’influenza avuta sull’approccio scientifico della sua epoca. Almeno ben due delle sue opere più celebri sono incluse nell’elenco delle kikaiisan (機械遺産) ovvero il catalogo ufficiale de “Le Preziose eredità meccaniche della Nazione” (nella storia dell’arte dell’Estremo Oriente simili graduatorie sono un elemento ricorrente, non soltanto in ambito nipponico) e queste sono: il giovane arciere e l’Orologio della Miriade di Anni, il  Mannen Jimeishou (万年自鳴鐘). Tale dispositivo con forma a campana del 1851, costruito sul modello dei simili dispositivi europei portati fino in Giappone dai missionari gesuiti degli ultimi tre secoli, che spesso ne facevano dono ai principali signori feudali del precedente paese in guerra, è un vero fenomeno di funzionalità. Può mostrare l’ora occidentale o giapponese e il giorno della settimana, il mese, la fase della luna e il periodo solare, per di più giovandosi di un aspetto estetico tutt’altro che insignificante. A quanto dicono, l’orologio richiese da parte dello stesso Tanaka oltre due anni di progettazione e messa in opera, mentre il suo funzionamento, con una singola carica della sua molla, poteva facilmente raggiungere i 12 mesi. Nel 2004, il governo giapponese istituì un progetto per ricostruire l’orologio integralmente, allo scopo di esporlo presso il padiglione nazionale nell’expo di Nagoya, previsto per l’anno successivo. Il progetto richiese 6 mesi e la partecipazione di circa 600 ingegneri, che comunque non riuscirono a riprodurre in modo fedele alcune parti del complesso meccanismo. Oggi l’orologio originale si trova presso il Museo Nazionale del Parco di Ueno, a Toyko, mentre la copia è nel quartier generale della Toshiba Corporation, ad appena qualche chilometro di distanza.
Come esemplificato dalla storia dei karakuri, la meccanizzazione è un campo particolarmente caro alla cultura giapponese. Forse la ragione va ricercata nella passione shintoista per le cose apparentemente inanimate, che tuttavia racchiudono in parte lo spirito del mondo naturale ed i suoi molti dei primoridali. Oppure sarà colpa di Doraemon, il gatto alieno in grado di fornire soluzioni a ogni possibile problema, grazie ai contenuti incomparabili del suo marsupio-tasca-scompartimento interdimensionale. Ma va considerato che soltanto trattando le macchine alla stregua degli umani, sarà possibile, prima o poi, donargli l’anima ed un grammo di ragione. E ci sono un sacco di ottimi motivi, per riuscire a (non?) farlo…

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