Bimbo a bordo col nunchaku di Bruce Lee

Nunchaku kid

La Tv che miagola grida disarticolate mentre, sullo sfondo del tempio buddhista coreano di Pope Saw, si scatena lo spettacolo de L’ultimo combattimento di Chen (1978) e non c’è assolutamente nessuno che lo guarda. Semplicemente perché in qualche modo, per l’allineamento delle stelle hollywoodiane, c’è l’occasione di un migliore palesarsi della stessa cosa, proprio nel salotto della casa qui rappresentata: il piccolo Ryusei Imai, vestito della tuta gialla che fu il simbolo di quella serie cinematografica, sinceramente impegnato nel mettere in pratica lo sguardo e le movenze dell’attore che ha ispirato una generazione, grazie alle sue doti fisiche, mentali nonché alla capacità di rimettere nero su bianco il complesso sistema filosofico e funzionale di molti secoli di arti marziali internazionali, in quello che sarebbe diventato il nuovo canone del Jeet Kune Do. La cui eredità continua a generare spunti di crescita ulteriore, come questa spettacolare occasione di mimési finalizzata all’acquisizione di un credito sul web. Si tratta di un approccio fedele al modello di quel personaggio che il bambino sinceramente adora (o almeno così scrive il padre, nella descrizione sul canale di YouTube) ma soprattutto in grado di portar le circostanze fino al massimo confine del possibile, visto l’uso ineccepibile che si fa di uno strumento alquanto preoccupante: il doppio bastone tondo e incatenato, secondo la tradizione cinese, oppure assicurato con la corda in crine di cavallo, come si usava fare all’altro lato dello stretto mare, presso quel paese che è anche il luogo della scena: il Giappone. Lo stesso arcipelago da cui proveniva il Karate di Wing Chun, la tecnica di combattimento appresa per prima dal famoso attore naturalizzato americano, che avrebbe poi costituito le basi per la sua futura crescita professionale e spirituale. E che forse, benché questo non sia noto, potrebbe avergli fornito l’ispirazione per portare sugli schermi cinematografici, direttamente dalle coste rigogliose delle isole Ryūkyū, il pericoloso e affascinante mulinare del nunchaku.
È una di quelle attività che non può essere semplicemente approssimata. L’impiego riconoscibile di uno strumento che non era, almeno nel suo principio originario, niente affatto complicata, si trasforma nel linguaggio cinematografico in una sorta di stilema, retto da una lunga serie d’artifici scenografici e manovre in grado di trascendere il mero concetto d’efficienza. Avrete certamente visto il tipico guerriero della strada al servizio del bene comune, robosentinella o supereroe mutante che s’ispira ai grandi del passato, che posto dinnanzi al suo nemico non si limita a sconfiggerlo, bensì lo induce prima a riconoscere la propria superiorità. Si tratta di un concetto molto amato da chi scrive simili sceneggiature. Ciascun colpo vibrato con quest’arma, prima di essere portato a segno, deve poter rispondere a un copione funzionale, il catalogo complesso delle rotazioni. E in assenza di un nemico, ancora meglio; in taluni circoli si ritiene, addirittura, che l’effettiva inclusione dell’attrezzo in questione nel ricco repertorio delle arti marziali per così dire accademiche fosse in origine finalizzata ai soli kata, le sequenze di movimenti dimostrativi attentamente codificati, usati come esercizio fisico di primaria importanza in buona parte dell’Estremo Oriente, non soltanto in ambito marziale. Non c’è forse una migliore dimostrazione in pratica di quel concetto per cui: “Il tuo maggior nemico è dentro di te” che un mettersi a gestire con destrezza questo duplice oggetto, tanto propenso a colpire l’aria quanto le stesse articolazioni o le ossa di chi tenti l’azzardo di riuscire a dominarlo. Perciò, è tanto maggiormente apprezzabile il rischio corso da questo giovanissimo emulo alle prese col bisogno di apparire. Forse spinto innanzi dall’orgoglio dei suoi primi fan e promotori, questo si, ma talmente abile e fiducioso in se stesso da cimentarsi con una delle armi più difficili da dominare. E riuscire, almeno all’occhio di un profano, a riprodurre con perizia le movenze di un maestro venerato. Il suo futuro è certamente carico di possibilità…

Nunchaku do
L’effettivo impiego del doppio bastone con corda in un contesto sportivo viene sancito dalla World Nunchaku Association, all’interno di eventi che prendono il nome di Nunchaku-Do. L’attrezzo regolamentare, fortunatamente ricoperto di gommapiuma, è giallo e nero come quello usato da Ryusei.

L’origine del nunchaku, come quella di molte altre armi nate dal bisogno, si perde nelle nebbie del tempo. O per essere più specifici, tra quelle dei picchi montani verso il centro della Cina, ove si credeva risiedessero gli spiriti dei draghi, fenici ed immortali. Nonché l’occasionale bandito, intenzionato a trarre il proprio pane quotidiano direttamente dalla bocca dei malcapitati. Luoghi in cui l’uomo comune, privo di accompagnamento militare, non poteva fare a meno di avventurarsi con un certo grado d’inquietudine, tale da portarlo a individuare potenziali mezzi di difesa, tra gli oggetti caricati sul suo mulo, il carro o il carico dei suoi bagagli. Abbiamo notizia almeno a partire dal VII secolo, in modo particolare, di un doppio bastone dell’epoca della dinastia Zui, creato a partire dal morso dei cavalli. Poi mutato, attraverso i secoli, in una sorta di mazza usata per tagliare il grano, affine a simili attrezzature diffuse anche in Europa, come dimostrato ad esempio nel dipinto olandese del Paese della cuccagna (Pieter Bruegel il Vecchio, 1567) in cui la personificazione dell’agricoltore, stordito all’ombra del mitico arbusto titolare assieme a quelle del soldato e dell’ecclesiastico, stringe ancora in mano due lunghi bastoni assicurati assieme. La versione cinese pensata per il combattimento, tuttavia, non è particolarmente simile a questo specifico implemento, viste le sue dimensioni molto più ridotte. I due concetti di base posti a fondamento dell’impiego di quest’arma, fin dalle sue prime versioni, erano infatti rapidità e discrezione. E benché una mazza convenzionale, fatta di un solo rigido pezzo di legno, avesse notevoli vantaggi soprattutto in difesa, ben più difficile sarebbe stato giustificare il suo possesso da parte di un agricoltore.
Non a caso, la massima diffusione storica del nunchaku si ha soltanto successivamente, nell’arcipelago delle Ryūkyū (odierna prefettura di Okinawa). Dove, a partire dal 1600, lo shogunato Tokugawa lasciò che imperversasse il clan degli Shimazu di Satsuma, fiera famiglia di guerrieri samurai, ancora ostile al governo centrale per la sconfitta subìta nella grande battaglia di Sekigahara. E dunque assai propensa a dominare con il pugno di ferro, soprattutto nelle sue imprese guerresche ai confini di quello che stava diventando un mondo totalmente a parte. Erano anni di una faticosa transizione. Appena un paio di generazioni dopo, il terzo shogun della dinastia Iemitsu, emanò a partire dal 1633 la serie di editti che avrebbero istituito lo stato del Sakoku, o paese incatenato, ovvero di un Giappone quasi totalmente chiuso ad influenze e scambi con gli stranieri. Tutti tranne quelli appena incorporati, gli abitanti di quelle isole distanti. La cui condizione di vita, benché relativamente serena, può essere davvero facilmente immaginata: la più completa ed assoluta subordinazione, secondo i metodi assoluti del concetto della società feudale. Fu così che nacque, lontano dagli occhi degli invasori stranieri, la tradizione autoctona del Kobudo, o “Antica via marziale di Okinawa” nota per il modo in cui trovava applicazioni battagliere per i più comuni attrezzi contadini. Molte delle armi più affascinanti del Giappone, rese celebri dal cinema di genere, provengono da questo tempo e luogo: i pugnali triforcuti sai, i manganelli in legno tonfa, le molte variazioni della falce a mano, kama e la loro versione dell’antico attrezzo cinese per il grano, in cui i bastoni non erano più a sezione circolare, bensì ottagonali, per recare un danno maggiore all’impatto con il corpo e le giunture del nemico. La stessa immagine popolare del romantico ninja, alquanto stranamente, non è associata alla sua spada diritta fatta per trafiggere, appositamente e direttamente modificata per l’assassinio a partire dalla katana del suo signore, quanto piuttosto a simili importazioni tecniche provenienti dalla classe dei servitori per nascita, le genti sottomesse del nipponico sud. Forse non è che l’ennesimo desiderio romantico di associare l’anticonformismo ad uno spirito di ribellione?

Nunchaku kid 2

E chissà se simili pensieri d’associazione tipologica, ai nostri tempi moderni consacrati alla spettacolarizzazione, avessero in effetti attraversato la mente di colui che, singolarmente, seppe rinverdire la dimenticata tradizione del nunchaku. L’uso che faceva Bruce Lee di quest’arma, nei suoi film più memorabili, fu conforme a quello di ogni altra sua tecnica ed approccio combattivo: raffinato e potente, chiaro frutto di un lungo periodo di preparazione. Non restava nulla, nel suo furibondo mulinare, della raffinata tecnica degli antichi kata dimostrativi, né della brutale spontaneità dell’uomo semplice alle prese con l’avversario accidentale della sua giornata. La coppia di bastoni sfaccettati, all’interno delle vicende tragiche o tribolazioni dei suoi personaggi più famosi, si trasformava nell’effettiva estensione di un fisico teso verso l’impossibile, parte inscindibile di un fluido intento di trasformazione. Sappiamo per certo, grazie a citazioni comprovate, che lui usava ispirarsi alle massime dei filosofi del suo paese: gli alberi più rigidi si spezzano per la neve, così come i denti cadono, mentre la lingua si mantiene.
Per un bambino che raggiunga un simile grado di perizia in qualsivoglia attività, sia questa sportiva, matematica o musicale, la flessibilità è una dote che soverchia il quotidiano. Non c’è niente d’innaturale, a quell’età, nel trascorrere le proprie giornate pigramente stesi tra i balocchi, a fantasticare di un futuro di successi che forse mai si realizzerà. È invece il trasformarsi, anche soltanto per pochi attimi, nel guerriero che seppe terrorizzare l’Occidente, a richiedere uno sforzo di ricerca e sperimentazione.

Lascia un commento