Puoi dire tutto, poeta, retore o cantore. E tu puoi fare tutto, minatore. Puoi svegliarti al canto del tuo pappagallo! Puoi guidare l’auto fino in bagno, poi mangiare le lattine della Coca Cola! Puoi saltare fuori dalla porta, rotolando fino ad un computer per spalare neve vitruviana, picconando con dell’enfasi cubetti virtuali. Basta che ci pensi, per un attimo, dodici ore: non c’è nulla che fuoriesca dal possibile dell’intenzione, granitica è l’essenza del profondo desiderio. Addirittura esiste il caso, ed è un caso certamente dimostrato, che la forza stolida dell’insistenza muova le montagne, cavi fuori il loro sangue e poi lo metta all’aria ad asciugare, purissima essenza di un ammasso così grande, tanto immondo (nel senso che proviene da un diverso tempo e luogo) da non poter servire ad altro scopo, che quello di esistere, giacendo. Ora, naturalmente sono molti i modi di trattare sua maestà la pietra, quasi tutti dipendenti da quella potenza accumulata in forme tecnologiche e dispositivi in grado d’espletare l’energia: molti conoscono, qualcuno si ricorda, del caso strano della roccia ignea intrusiva felsica, altresì detta granito, che era dura, resistente, potenzialmente utile in diversi campi. Componente primaria della crosta del nostro pianeta. Però piuttosto raramente utilizzata in architettura fino ai tempi più recenti, visto quanto fosse permeabile agli sforzi degli umani, tutti gli scalpelli e i vari orpelli rivelatisi incapaci di graffiarla. Per lo meno, facilmente; perché come dicevamo, tutto può essere portato a termine, previa l’applicazione del corretto grado d’insistenza. È un concetto che risulta chiaro tramite l’applicazione di metafore, stavolta: ecco il vento. Che per la maggior parte dei suoi giorni non potrebbe mai spostare un sasso da 200 tonnellate. Eppure dagli 100, 1000 anni, ne avrà fatto briciole da sparpagliare, poi raccogliere col tubo dell’aspirapolvere della miniera. E così quel giorno Dennis Carter, fondatore e proprietario del principale albergo di Deer Isle, lassù nel Maine, isola boscosa a qualche chilometro di suolo e mare dalla cara vecchia Boston, capitale del Massachusetts e città simbolo della regione del New England, che si estende per il territorio di ben sei diversi stati.
Colui che qualche anno fa, mirabilmente, si apprestava ad applicarsi in un mestiere antico eppure poco noto, fuori dal campo dello scalpellino e i suoi colleghi, al punto che il suo personale exploit, così rappresentato per la gioia degli utenti di YouTube, sarebbe presto diventato un simbolo e principale rappresentazione odierna di quella particolare attività: il paletto e la piuma (plug & feather) oppure il cuneo e la zeppa (wedge & shim) o ancora il feather and tare, come lo chiavano nel gergo della regione Devon d’Inghilterra, sul principiar del secolo 1800, quando venne riscoperto per l’impiego al tempo di grandi costruzioni e relative industrializzazioni. Un approccio semplice al problema complicato, di tagliare un blocco grande come un’automobile in due parti uguali, e poi praticare su ciascuna di esse quella stessa cosa per la divisione equa e regolare, finché non si giunga ad un coronamento di un buon numero di pietre grandi, eppure trasportabili su schiena umana. O ancor più probabilmente del testardo mulo. Perché occorre convinzione ed insistenza raggiungere la meta, ma sopra ogni altra cosa, l’intenzione. Il concetto è chiaro al primo sguardo: qui si tratta di praticare, lungo una stessa linea invisibile, una serie di fori nel pietrone. Che nel presente caso, Mr Carter ci presenta con il numero spropositato di ventiseimila pounds di peso (11 tonnellate ca.) davvero molto. Troppo, per gestirli tutti assieme. Quindi in ciascuno dei buchi, con enfasi fattiva, s’inserisce uno strumento a cuneo con forma di V e due alette laterali rastremate. Tali da poter rendere uguale la cima del componente centrale alla sua punta, per lo meno una volta poste a contatto in senso longitudinale. Ma lo spazio necessario è superiore a quello ricavato nella pietra. Ma chi ha detto che questo sarebbe un problema? Anzi!
Così si da principio all’arte. Incastrato ciascun set d’attrezzi nel relativo foro, si comincia a dare dei colpetti di martello su ciascuna testa. In rigida sequenza, affinché non si vada troppo avanti da un parte, facendo venir meno l’armonia che si desidera da un tale scopo. Gradualmente, un colpo dopo l’altro, si ode già la differenza: il suono che da sordo si trasforma in musicale, come si trattasse di un litofono gigante. Nel frattempo, in progressiva ramificazione, si formano gli spacchi tra un paletto e l’altro, che propagandosi si cercano a vicenda. “Occorre andare piano” Ci spiega lavorando: “Per lasciare che la forza di gravità faccia parte del lavoro. Un taglio come questo richiede circa un’ora” Ed è facile condividere poi l’entusiasmo, di quell’uomo teso a una missione, quando sul suo colpo maggiormente rilevante si ode un CRACK! Sonoro, poi la pietra inizia a separarsi. A quel punto, la situazione è giunta al suo coronamento: tutto quel che resta è dare qualche spintarella residua per far di un solo blocco, due. E passare quindi alla suddivisione successiva. Il tempo non aspetta nessuno, e il Deer Isle Hostel ha bisogno di una nuova officina per lavorare la pietra. Fabbricata, alquanto giustamente, con i vecchi metodi di questo luogo. Non esistono fondamenta più solide di quelle tratte dal granito. Per lo meno, negli antichi presupposti dell’architettura.
E in quanti celebri luoghi americani è stato collocato, questo stesso storico granito! Si trattò in effetti, a partire dal diciannovesimo secolo, della principale pietra a disposizione dei costruttori di monumenti ed opere civili dell’intera zona circostante il Maine. In tale ottimo materiale furono costruiti lo storico Harvard Bridge sul fiume Charles di Boston, seguìto a ruota da quello a Tri-borough della vicina città di New York. Per non parlare della stessa Lady Liberty, la statua che notoriamente poggia sul maestoso plinto, anch’esso ricavato dalle operose miniere di quest’isola, la cui seconda maggiore città (dopo quella omonima all’intera terra emersa) prende niente affatto casualmente il nome di Stonington, ovvero grossomodo “Il paese delle rocce”. In tempi più recenti, possiamo ritrovare questo stesso granito sul muro di Isaiah, monumento alla pace eretto presso la sede delle Nazioni Unite, a Turtle Bay, nella fontana del Rockfeller Center e presso la sede centrale della banca del Pacifico all’altro lato del continente, a Los Angeles in California. Tale fu la fama mineraria di questo remoto luogo, altrimenti noto come località di villeggiatura per gli abitanti del Nordest, dalle notevoli risorse paesaggistiche ed alcune prestigiose gallerie d’arte. Oggi in grado di giovarsi, tra le altre cose, di un museo dedicato alle miniere da cui è provenuto quello stesso grande blocco, con tanto di trenino elettrico per il trasporto del materiale in scala e modellini delle macchine impiegate quotidianamente sulle ripide, feldspatiche pendici di quest’isola senza rivali. Ma nulla può sostituire l’esperienza di vedere all’opera il vero lavorante, grazie ai ricchi e variegati archivi del regno digitalizzato.
Così giunsero i suoi antenati, dopo un lungo periodo di navigazione, all’altro capo dell’Oceano Atlantico. Perché tanto antica, è la prassi lavorativa del granito di Deer Isle, risalente all’epoca in cui non soltanto i cervi, ma persino poderose alci s’inoltravano tra i fitti boschi di quei luoghi, indisturbate dai Nativi Americani Abenaki, che qui vivevano fin da 6.000 anni a questa parte. Si parla addirittura del mondo antico, l’epoca in cui gli Egizi l’impiegarono per le piramidi e gli alti obelischi, con prassi costruttive poi mutuate nelle culture dei greci e dei romani. Ma la prima attestazione moderna di un taglio effettuato con il metodo dei cunei si ha proprio in una testimonianza del New England, all’interno del Georgical Dictionary (1790) di Samuel Deane. Lì si parla di un approccio con due cunei, ciascuno fatto seguire da altrettanti pezzi semi-cilindrici di metallo, da inserire in corrispondenza delle venature naturali della pietra da tagliare. Fu soltanto successivamente, nel 1803 che Robbins, l’allora governatore dell’isola, incontrandosi con un certo artigiano di nome Tarbox per la costruzione di una nuova prigione, riscontrò l’approccio di quest’ultimo al taglio dei blocchi di granito, che non impiegava due soli plugs, bensì qualunque quantità si rivelasse necessaria. Colpito dall’efficienza dimostrata, Robbins lo assunse quindi come capo-miniera delle cave di Quincy nel Maine, affinché costui istruisse i lavoranti in quella che sarebbe rimasta ad oggi la miglior maniera d’impiegare il plug & feather. Secondo le cronache coéve, ciò portò nel giro di pochi anni a una riduzione del costo del granito nordamericano a circa la metà del costo originario.
Ma nel frattempo, in Inghilterra, già iniziava a profilarsi un mezzo ancor più nuovo: il taglio artificiale della pietra di ogni tipo, inarrestabile, instancabile, indotto con la furia e con la forza del carbone e del vapore. Nel 1832, presso la città scozzese di Aberdeen fu installato il primo monumento funebre tagliato e lucidato a macchina, ad opera dell’inventore Alexander MacDonald, iniziando una lunga carriera di successi, che si sarebbe interrotta solamente 50 anni dopo, con la messa in commercio di strumenti ancora più efficaci. Oggi, circondati dalla potenza dell’energia elettrica, non ci sogneremmo mai di ritornare al metodo di quegli anni, rumoroso, sporco ed inquinante quanto una qualsiasi attività industriale. Ma è difficile biasimare chi, come quel barbuto tagliapietre-per-passione, decida di tornare alle origini, verso quella musica armoniosa e delicata. Un suono lieve che allieta l’orecchio, mentre tortura e spacca le montagne.