La tipica lavanderia a gettoni nello stile americano, se presa per il giusto verso, può costituire la metafora di questa stessa condizione umana. Vi si reca chi, provato dagli eventi, non può prescindere da un carico residuo d’esperienze. Gli abiti, la biancheria, i calzini; i cappotti, le giacche e le coperte; piccoli ciottoli sperduti sulla strada della vita. La cui essenza è vulnerabile ad un certo grado d’entropia: nulla è puro, tranne quel che è nel suo profondo, veramente, straordinariamente puro. Così è talvolta necessario, nonostante i molti impegni contingenti, prendere le proprie cose, metterle nel meccanismo. Pagare l’obolo e poi dare un La, la spinta di un pulsante che è il primo segnale dell’orchestra pulitrice. C’è un motore, la metafora dell’orologio. E il detersivo, polvere di stelle. Finché alla fine torna tutto come da princìpio, limpido, perfetto. Lavatrice non è un semplice modo di dire. Ma il candido monolito che fa impallidir l’incedere del tempo. Mentre gli utenti, fondamentalmente inermi innanzi a tale meraviglia, silenziosamente osservano, pensando: “Se soltanto esistesse un modo utile a perdermi in cotanta meraviglia. Diventare parte di quel flusso di depurazione, eterno, per definizione…” Ebbene, Sega, esiste. Megadrive, se c’è! Per Saturn, Jupiter e Master System, sotto l’occhio scrutatore dei pianeti, o forse del designer dell’azienda rilevante Ryuichi Taki (che ebbe a presentarcelo qualche anno fa in Giappone) giunse a palesarsi l’occasione, la risposta a quel bisogno della mente appassionata: mai più senza, MaiMai, un touchscreen di forma circolare. MaiMai, con otto tasti colorati sopra il bordo. Con telecamera, connessione a Internet, altoparlanti digitali! Ma cominciamo dall’inizio. Che nel caso specifico, vuol dire tutta un’altra Sala.
Come forse qualcuno ancora ricorderà, il videogioco in quanto tale ha già subito numerosi cambi di rotta evolutivi. Ciò che era un passatempo occasionale, frutto del trascorrere del tempo in luoghi di ritrovo specializzati, è diventato grazie all’evoluzione tecnologica un media alla pari con qualsiasi altro, praticato quotidianamente all’interno di tutte le case. Concentrazione assoluta delle menti correlate, ma distanti: quella del creatore, all’altro capo dell’asse spazio-temporale, assieme a quel colui che gioca, nel silenzio e nella pace del suo tempo libero, da solo. Cosa che non fu in origine, quando certi computer aziendali, desueti ma pur sempre in uso, avevano la dimensione di una scrivania. Non c’era, allora, il senso della versatilità assoluta dell’odierno mondo informatico, in cui lo stesso dispositivo può essere riproduttore musicale, workstation grafica, creatore dei mondi fantastici da visitare. Così ci si recava, con un carico di monetine, laggiù alla sala giochi, l’antonomasia del concetto di Arcade (galleria commerciale) inglesismo che al di fuori dell’ambiente madre lingua, ormai, vuole dire quella cosa specifica e soltanto quella. Un luogo caotico, con degli alti cabinati in compensato, variopinti, rumorosi. Dove il rombo dei motori aveva modo di mischiarsi con gli spari di fucili militari, musiche indistinte, grida dei guerrieri comandati in epiche battaglie – Toh, swah, Tatsumaki Senpukyaku! Per intenderci, figli dell’epoca-Playstation, non è che le case fossero del tutto prive di apparecchi in grado di emulare tali forme di divertimento. Ma la versione domestica di del volto di Ryu e Ken assomigliava più che altro, nelle parole coéve di un dimenticato recensore, al muso di uno Shih Tzu di Pechino! Mentre nulla, nulla raggiungeva l’assoluta perfezione della macchina costruita ad-hoc (poco importa che in effetti su molte board si potessero cambiare i giochi) o per lo meno il fascino, l’emozione di giocare, ma in luogo pubblico, fra gli occhi appassionati degli astanti. Così era un tempo, e almeno in un certo paese, così ancora è.
Il Giappone, come ben comprende chi se ne interessa, è fondato sopra una cultura di assoluto sincretismo. L’eleganza assieme alla semplicità, la concisione che non soprassiede le metafore. E poi soprattutto, quel che viene tanto spesso snocciolato, analizzato da interi gruppi di studio: antico e moderno, fusi fervidamente assieme, per creare quella mescolanza che è il presente delle cose di ogni tipo. Tra cui l’intrattenimento digitale, che lì, soprattutto, ancora può fregiarsi della diffusione di quei luoghi che oramai, altrove, sono stati sostituiti dall’onnipresente lavanderia a gettoni. Quindi la domanda è questa: cosa può portarti, giocatore, a visitare un luogo simile, quando la miniaturizzazione dei componenti d’oggi ti permette d’eguagliare in casa, e invero con un buon PC persino superare, quanto di meglio possa essere collocato alla portata di urti, manomissioni ed utilizzo della collettività brutale? Un sistema di controllo senza precedenti, forse.
Così siamo giunti, attraverso gli anni di collaterali sperimentazioni, ad un tale straordinaria scena: il “performer” SMN (pare che dire player, nei casi simili a questi, sia davvero troppo poco) che manovra l’astronave in questione, persa nel viaggio sulle note di Caliburne dei Project Grimoire, un pezzo musicale messo assieme per l’apposito impiego all’interno dell’arnese in questione (o almeno così riporta NicoNico). La cui somiglianza con la candida regina degli elettrodomestici è davvero sotto gli occhi di chiunque, incluso l’utilizzatore. Il quale tuttavia, di certo a questo non pensava, fin dalle prime battute di quella che potrebbe essere, nei fatti, una delle prove migliori della sua carriera: le mani che diventano praticamente invisibili, mentre a ciascuna nota viene offerta la risposta idonea tra l’ampio catalogo dei gesti e trascinamenti arzigogolati riconosciuti dalla macchina. Nei moderni giochi esponenti di genere, ormai da tempo, è stato superato quel bisogno di offrire l’illusione di stare suonando uno strumento musicale. Niente più chitarre di plastica, tamburi, tasti sequenziali nello stile di un comune pianoforte. Ma piuttosto un’interfaccia incredibile ed astratta, di per se parte dell’opera artistica dei costruttori. E in questo, il videogame MaiMai non ha davvero niente da invidiare ad alcunché, neanche un frullatore d’abiti dei più spettacolari tempi andati.
La concezione di MaiMai, parte dell’odierno piano della nuova Sega per mantenersi tra i leader giapponesi della produzione di macchine da sala giochi, parte da un’esigenza di irrompere su una scena largamente cristallizzata, quella della musica ludica nobilitata al di sopra del semplice status d’accompagnamento. In questo sono molto bravi. Ormai perso il vecchio primato che la rese celebre su scala internazionale, quello che la vedeva, alla pari di Nintendo, come una delle promesse multimediali dell’elettronica domestica d’intrattenimento, nel 2003 la vecchia compagnia del porcospino blu vide l’acquisto di un corposo pacchetto d’azioni da parte dell’allora CEO della Sammy, Hajime Satomi, con successiva fusione delle due realtà operative nella Sega Sammy Holdings, sede di molte valide mentalità creative. Probabilmente proprio all’interno di un simile clima fortemente sperimentativo, ancora dieci anni dopo un tale evento, è nata l’idea di offrire un punto di vista intermedio tra i classici rhythm game con tasti colorati e quelli più prettamente partecipativi, in cui veniva richiesto al giocatore di danzare sopra un tabellone coi suoi stessi piedi, esemplificati in genere dal classico della Konami, Dance Dance Revolution. MaiMai, che è uscito nel 2012, offre infatti una visione differente di quel che significa mettersi in mostra, da sempre un importante contributore alla popolarità di tali giochi: la macchina include un secondo schermo superiore a quello principale, recante il titolo della canzone in corso d’esecuzione ed il punteggio del giocatore, come una sorta di attrattore permanente. Oltre a quello c’è una telecamerina, di lato. Quest’ultima impiegata, almeno nelle prime fasi di messa in circolazione del gioco, per caricare online su NicoNico (risposta nipponica a YouTube) l’impresa dei migliori giocatori. A loro insaputa? Chi lo sa. Probabilmente è proprio questa l’origine di molti degli eccezionali video di SMN e dei suoi colleghi, spesso raccolti dallo stesso esecutore e poi ricaricati presso un canale autogestito. E adesso provate a farli rimuovere, detentori dell’originario copyright!
La musica nei videogiochi, come ogni altro elemento contingente, ha attraversato diverse fasi di progressivo miglioramento tecnologico. Dapprima frutto di brevi e ripetitive samples, sequenze memorabili come il jingle iniziale di Pac-Man, è stata elevata al ruolo d’importante sottofondo, subordinato alla grafica eppure mai del tutto superato nel suo ruolo di contribuire all’atmosfera. All’epoca d’oro degli 8 e 16 bit, l’aumento dei canali audio a disposizione permise di creare, per la prima volta, un mixaggio di effetti sonori causati dal giocatore e note attentamente predeterminate, con una bizzarra sinfonia che nel tempo sarebbe diventata il simbolo aurale di questo stesso genere creativo. Chi non ricorda il tintinnar di monetine dell’antico Super Mario, trasformato in complemento ai ritmi caraibici scritti dall’insuperato Koji Kondo per la Nintendo degli albori? E poi l’epoca della digitalizzazione, quando gli avanzamenti nei metodi di compressione dati permisero d’inserire vere e proprie colonne sonore nei giochi dell’Amiga e dello Snes, con pezzi diversi per ciascun singolo livello, spesso ispirati ai classici della musica, sia classica che moderna. Successivamente, la nascita del CD-ROM portò ad un mezzo passo indietro, con tracce musicali rigide e sensibilmente meno interattive, collocate su zone del disco fisicamente scollegate rispetto al resto dell’azione. Ma il gioco prettamente musicale, ovvero l’antesignano dell’odierno Sega MaiMai, venne solamente molto dopo. Quando il rombo degli augusti sintetizzatori, ormai del tutto scollegato da quei movimenti d’aria che erano l’origine dell’articolazione auditiva, erano stati largamente rimpiazzati dalla vibrazione artificiale degli altoparlanti. Di sicuro, nell’articolata esecuzione del performer SMN c’è ben poco di riconducibile al gesto di suonare una chitarra. Ma chi può dire, veramente, quale sia il metodo per trarre gioia da una lavatrice?