Hai collocato l’ultimo televisore, hai costruito la specchiera dell’Ikea. Sei stanco ma felice, ma sopratutto: pieno di cartoni. Semi-sepolto da questo elemento corrugato che il supremo simbolo del consumismo, il frutto della linfa d’alberi sacrificati. Druidi piangono nella foresta. Tutto quel marrone condannato al cassonetto, ti circonda ed avviluppa, crea lo spirito di una visione. Osserva: Chtulhu coi blue jeans ed un arpione minaccioso, nella versione bipede e a misura d’individuo umano. Difficilmente gli dei abissali del crepuscolo, quei dormiglioni, potrebbero venirti a visitare senza un avatar per far da intermediario. E poi Alphonse Elric, l’alchimista fratellino che era un tempo stato senza un corpo, finalmente ritornato nella forma pre-trasmutazione, per di più armato e pronto a farsi rispettare nella mischia delle strane circostanze. Un paio di vichinghi che non han mai fatto male, soprattutto quando uno di loro è stato anche dotato di gustosa drakhar personale, barchetta barcollante fatta su misura, per il pregno rituale dei guerrieri. È questa, forse… La battaglia della spazzatura! Ecco Dovakhin il sangue del drago con due zanne sopra l’armatura, nominato dalle antiche profezie su Skyrim per lasciarsi addietro tutti gli altri, eroi distinti eppure uniti nello scopo di gridare FUS-RO-DAH! Ma perquà?
Era di certo l’alba di una giornata come le altre in questa palestra della Francia centro-orientale, benché di un 13 aprile ricco di sincera aspettativa. La ragione: un’occasione divertente ed inconsueta, questa messa-in-scena di un tipo d’incontri che soltanto raramente si verifica da noi in Europa (benché la situazione sia in un ripido divenire) ovvero l’anime convention il cui alias è comicon, quel punto d’incontro transitorio per tutti gli amanti delle cose fantasiose. Che tra l’origine dalle tipiche fiere-mercatino giapponesi, di pupazzi, piccole sculture plasticose o manga fatti in casa, per giungere a trasformarsi in un fondamentale strumento promozionale utile a chi pubblica o traduce queste cose, oltre a una suprema mascherata di una buona parte degli astanti. Immagina che convenienza! Vendere un qualcosa che è talmente amato dalla sua clientela, che la gente volontariamente si trasforma in cartellone pubblicitario, poi si reca in luoghi particolarmente affollati, per pavoneggiarsi innanzi al gusto della collettività. Ma non oggi, non stavolta, certamente non in occasione di questo Japan Touch “Haru” di Lyon (Giappone che tocca…La Primavera?) Il punto d’incontro-scontro scelto per la semestrale/bimestrale/trimestrale/quando diamine ti pare/ battaglia de Les Cartonnades, una recente ed affascinante invenzione del gruppo culturale French Boxwars, con sede nella prossima, relativamente piccola Dijon. 156.000 abitanti ca. contro i 496.000 della grande metropoli, ma almeno in parte, tesi a far qualcosa di creativo, dare un senso differente a ciò che sia lecito aspettarsi nella tipica fiera di paese. Due salti, un santo, una sfilata. Ed alla fine tutti assieme, nell’approssimazione metaforica di sangue e arena, per inscenare una battaglia cartonata tra guerrieri leggendari. Indossare un costume: che ottima maniera di sfogarsi. Se poi l’hai fabbricato tu personalmente, diventa pure divertente.
Lavoro, fatica, lavoro. Lavori tutti i giorni di un periodo medio, al solo scopo di raggiungere un determinato luogo ed a quel punto, dirti soddisfatto; per qualche tempo, almeno. Se la prima legge di natura è che “nulla può essere creato dal nulla” e guarda qui che storia! Persino la trasformazione da uno stato all’altro delle cose può richiedere uno sforzo assai considerevole, non sarebbe meglio concentrarsi nel cercare un qualche tipo di artificio? La scappatoia che può permetterti di fingere, prima che accumulare, abilità, sapienza, forma fisica eccellente. Se davvero, come dicono i proverbi, l’abito talare non facesse il monaco, nulla di apparente o significativo avrebbe un ruolo a questo mondo. E non esisterebbero le guerre fatte tra un colore e l’altro, per il trasporto di vessilli privi di un significato sui torrioni di fortezze atlantidee, perennemente attese dai pinnuti con e senza scaglie, per deporvi sopra le uova di una prossima generazione. Già fornita di etichette, cimieri ed alte tube da indossare. Chtulhu permettendo, s’intende.
È una tipica inversione del rapporto causa-effetto, quella che spopola nei tipici racconti d’intrattenimento del moderno. C’è sempre questa variegata serie di personaggi, accuratamente caratterizzati per quello che sono interiormente: l’entusiasta, il rigoroso, il timido, il perverso. E poi vestiti, in base al ruolo: un guerriero porta SEMPRE l’armatura, tranne che in particolari scene attentamente definite. Lo stregone ha un lungo abito che il simbolo del suo mestiere. L’assassino, da che il mondo fantastico moderno ne ha fatto un ruolo beneamato (forse questa è la sorpresa più stupefacente) è sempre col cappuccio, le armi bene in vista tutto attorno al cinturone con pericolosa bandoliera. Esiste persino il caso, particolarmente in voga nei giochi di ruolo nipponici, che il/la protagonista possa cambiarsi sulla base del bisogno, trasformando i ruoli e le prerogative ad essi correlate. Vedi Ingus di Final Fantasy III, o Yuna ritornata come cantante Pop del continente di Spira, per alzare nuovamente l’armi contro chi quel luogo osava minacciarlo: spada, chitarra, fucile, chi più ne ha… Se esiste un meta-gioco, nella simulazione dei viaggi eroici a scopo di risoluzione e crescita interiore, resta certamente questo. Noi che fingiamo d’essere colui/lei che nel frattempo, a sua volta, indossa una serie di maschere, decise dal bisogno. “It’s (ninja) turtles all the way down!” (Dicitura che si richiama al rettile incaricato di sostenere il disco della terra un tempo piatta, a sua volta poggiante sopra un suo simile, e così via fino al remoto, o invero inesistente, fondo solido dell’universo). Quando in effetti, non c’è nessuna correlazione tra il colore delle tue scarpe e la velocità a cui corri, l’altezza dei tuoi salti. E non puoi farti un guscio solido abbastanza, se non tramite il tuo stesso desiderio di creare. C’è un termine mutuato dalla lingua inglese, usato in Giappone per riferirsi a quella variante d’origami che sfruttano anche le forbici e la colla: pepakura (paper craft[ing]). Si tratta in genere di creazioni più complesse, spesso mutuate direttamente dal mondo del fantastico commerciale: mostri, draghi, mecha volanti, perfettamente riconoscibili grazie alla perizia di chi li ha creati. Ecco sostanzialmente ciò che fanno i francesi di Boxwars. Dei pepakura talmente grandi, che qualcuno può indossarli. Diventando l’osso della spada, il sangue di fuoco, il corpo dell’acciaio – So as I pray, unlimited cardboard...
Aveva in parte ragione lo spirito evocato del guerriero Archer, dal franchise multimediale Fate/Stay Night. Da una parte, sussiste la fatica dall’essenza responsabile: il prodotto involontario, arduo nello smaltimento, di chi si prodiga nell’impeto del quotidiano. Per mettere da parte l’arte, come si usa dire. O nello specifico acquisire quella serie di abilità, doti e meriti che servono a lasciare un segno nella tua epoca immanente, addirittura in quelle successive.
Però anche fingere per gioco, invece che in effetti fare, può a sua volta condurre verso un tipo alternativo di soddisfazioni. Apprendere quel metodo che ti permette, per pochi minuti o molte ore al giorno, di elevarti al di sopra della pura e semplice materia, indossando la realtà come una seta. Unica e preziosa, variopinta ed altrettanto facile da sostituire. Con l’entità marrone riciclabile per eccellenza, lo strumento che Amazon ha usato per portatela fin lì. Se ne hai voglia e perché è bella. Tanto alla fine, deve restare solamente quella. Quindi prendiamo qualche volta un taglierino, ex-caliburn estratto dalla sua custodia, per…