ROAR, il grande squillo d’allarme, il suono e l’espressione della belva che ci affascina e che suscita l’orrore primordiale. Nella storia del cinema come in quella di ogni altra arte visuale, ci sono immagini che hanno un senso predeterminato. Sono quelle che ricorrono, a partire da un’antonomasia, nell’iconografia della cultura letteraria, religiosa e mistica dell’insieme d’esperienze valido a comporre l’odierno senso comune. Giustizia, fortezza, temperanza. Sapienza, scienza ed intelletto? Ciascuna, per sua massima prerogativa, ben rappresentata nella sua particolare essenza, da un oggetto, una maschera, un animale. E non ci sono mai stati particolari dubbi, in merito al senso, al verso ed alla suggestione del leone. Creatura maestosa per eccellenza, pericoloso predatore, imponente approssimazione di ciò che potrebbe essere un gatto domestico, se soltanto noi guardassimo il mondo con gli occhi dell’inerme topo. Usata, da chi ricerchi l’utilità delle metafore, per simboleggiare non la semplice imponenza fisica, quanto piuttosto un senso di possenza trascendente, la capacità d’imporsi sulle cose prive di sostanza. “Meglio un giorno da…Che cento da pecora!” Esclama il detto rilevante, benché sia il caso spesso di considerare che: si, la pecora sarà pur pallida e incolore. Ma non potrà mai morderti alla giugulare. Strano. Ed improbabile, nevvero, quanto questa iniziativa delle due case indipendenti Drafthouse Films ed Olive Films, di andare a prendere da sotto il tappeto di Hollywood uno dei suoi ciméli maggiormente polverosi e prossimi dal completo oblìo, un film così tremendamente problematico, tanto conduttivo a una sequela di ricordi lugubri, che persino i suoi interpreti, ben 24 anni dopo, non vogliono aver nulla a che fare con tale restauro e conseguente re-release. Interpreti come una giovane Melanie Griffith (allora poco più che ventenne) e sua madre Nathalie Kay “Tippi” Hedren, la donna che notoriamente seppe affascinare a tal punto l’indimenticabile regista Hitchcock, da diventare la futura musa ispiratrice in alcuni dei suoi film degli anni ’60 e ’70, spesso con ruoli da protagonista perturbata dagli eventi. Forse la ricorderete come la fanciulla sfortunata dell’abitazione assediata da Gli uccelli, vittima di una delle scene più ansiogene della storia del cinema, con gabbiani, corvi e cornacchie assetati di sangue, misteriosamente entrati da una finestra infranta, che tentano di ghermirla spietatamente al volto. E un senso di puro terrore che, ci narrano le cronache del tempo, fu tutt’altro che simulato “Non ti preoccupare ‘Tippi’, useremo soltanto uccelli meccanici.” Si, come no. Talmente irrealistici, per dire, che le zampe di uno di essi giunsero a recarle un profondo graffio sulla guancia, a pochi centimetri dall’occhio destro. Le riprese dovettero essere fermate per un’intera settimana, tra le proteste dell’insigne regista. Ma è difficile fargliene una colpa; questo fa, in fondo, l’arte. Si trasforma e contamina te stesso, essere umano, rendendoti uno schiavo della sua realizzazione, spesso anche a discapito del senso universale d’empatia. Notoriamente e come viene raccontato in diverse biografie, Hitchcock e la Hedren ebbero una duratura relazione amorosa, con lui che riuscì a trasformarla nella sua donna ideale, vestita sempre in un determinato modo, attenta al cibo ed all’immagine offerta al suo pubblico dei fans appassionati. Ma ecco quello che l’attrice, all’epoca sempre più infastidita dalle ossessioni di controllo del maestro del brivido, ancora non sapeva: il suo futuro gli avrebbe riservato sorprese professionali anche peggiori e interazioni con ben altri tipi d’animali, dovute alla sua successiva stima per un personaggio che la critica è stata assai più rapida a dimenticare.
Il 22 settembre del 1964, Tippi sposa il suo agente Noel Marshall, fascinoso e splendido, persino tra i molti scopritori di talenti della California. Il loro matrimonio prosegue senza intoppi per almeno dieci anni di convivenza e reciproci successi, con loro che organizzano, finanziano e producono assieme diverse valide pellicole, tra cui Mr. Kingstreet’s War e The Harrad Experiment (entrambi del 1973 e con la stessa Hedren come principale attrice femminile). Finché, nel 1973, non arriva il colpo di fortuna: lui che crede fermamente, fin dalla prima stesura del progetto, nella trasposizione cinematografica di un racconto orrorifico di William Peter Blatty sulla regia di William Friedkin, ovvero quello che sarebbe diventato il film da antologia de L’esorcista. Un opus con un budget relativamente ridotto (12 milioni di dollari) ma che riuscì ad incassare ai botteghini, secondo la stima odierna, un capitale approssimativo di ben 36 volte quella cifra e comunque largamente al di sopra dei 400 milioni, dei quali una significativa fetta fu incassata dalla celebre coppia di creativi. E se l’arte può cambiarti, come del resto pure i soldi, ciò che giungono a fare le due cose assieme fuoriesce dal sensibile, per entrare nella sfera della pura e incalcolabile immaginazione. Perché a quel punto, i pezzi erano in posizione, il contesto pronto e fertile per la follia. Così venne l’epoca di ROAR.
Alcuni film entrano nella storia per l’ottima composizione, l’accurata ricostruzione storica, i meriti tecnologici di coloro che hanno curato gli effetti speciali. Talvolta capita persino che una determinata colonna sonora, trascurata agli Academy Awards, riesca a lasciare un segno indelebile nella memoria degli spettatori, rendendo le immagini alla stregua di un semplice videoclip, mentre il film, nel suo complesso, si trasforma in quello che comunemente definiamo un cult movie (quante volte, Morricone…) Ci sono anche casi atipici, di grandi fallimenti che diventano, negli anni, talmente amati-odiati da guadagnarsi un fervido seguito d’appassionati, pronti a difenderne a spada tratta i meriti contro i loro sinceri detrattori. Vedi ad esempio il caso del sempre criticato Waterworld (1995) con Kevin Costner, mega-produzione oceanica condannata dagli eventi, tra cui un improvvido uragano tropicale, l’infortunio quasi mortale di uno stuntman, frequenti punture di meduse. Ma nonostante tutto, ecco il punto principale: quel film fu considerato un fallimento perché non riuscì a coprire i costi della sua munifica produzione (oltre 260 milioni di dollari) e per l’opinione negativa della critica, ma nonostante questo, furono davvero in molti a vederlo, con un incasso ai botteghini di circa 90 milioni. Ben altra storia rispetto al pantagruelico affondamento di ROAR, il film indipendente più costoso della storia.
Tippi e Noel, con i figli dei loro precedenti matrimoni, la Melanie di lei ed i due John e Jerry della controparte, saldamente uniti come un’unica famiglia, avevano un grande passione in comune: l’amore per gli animali. Fu così che, infusi dell’incommensurabile opulenza dovuta al successo de L’esorcista, decisero di realizzare un sogno senza tempo. Tutti assieme si trasferirono, nel 1972, in un ranch californiano presso la contea di Acton, ribattezzato per l’occasione con il termine dal sound vagamente africano “Shambala” dove vivere appassionatamente con 150 tra leoni, leopardi, tigri, giraffe, elefanti e così via. Un vero pezzo di savana, ricostruito a puntino con responsabilità e senso del dovere, mirato alla conservazione in uno stato di quasi libertà per tanti magnifici animali. Ma l’abitudine è dura a morire, e così non passò molto tempo prima che i due, la celebrata attrice e il produttore di successo, non decidessero di tornare a ciò che li aveva resi quel che erano; e così, venne deciso di girare un film. E che film! ROAR. La storia, molto in breve, a seguire: Hank, interpretato da Marshall stesso, è un naturalista che vive in Sud Africa, assieme a una collezione di belve esattamente uguale a quella di Shambala. Un giorno la sua famiglia, in visita dagli Stati Uniti, viene a trovarlo ma purtroppo da principio non lo trova. Ciò che scopre, invece, è una sanguinosa faida in corso tra due leoni aspiranti capo-branco, che ben presto si trasforma in una vera rivolta di ogni cosa pelosa e con le proverbiali quattro zampe. Segue una vasta serie di disavventure, con Tippi, sua figlia, John e Jerry che tentano disperatamente di salvarsi, nascondendosi come possibile dalle feroci fauci delle belve. Non c’è un singolo effetto speciale in vista. In effetti la tagline usata per il neo-rilascio del 2015, previsto inizialmente in sole cinque sale negli Stati Uniti, recita orgogliosamente: “A nessun animale è stato fatto del male per realizzare questo film. La stessa cosa non può essere detta degli attori.”
ROAR, se considerato dal punto di vista della sicurezza realizzativa e la sfortuna di contesto, fu un disastro senza precedenti nella storia del cinema, ed invero, ad oggi neanche successori (meno male!) Si stima che ben 70 persone, tra attori, personale di regia e assistenti, restarono in qualche modo feriti, morsi o masticati da uno dei molti animali messi su pellicola. Tippi Hendren, che fino ad allora aveva ricordato la scena culminante di Uccelli di Hitchcock come l’attimo più terribile della sua vita, riportò la frattura di una gamba e ferite alla testa, per un’aggressione da parte delle belve dopo essere caduta dal dorso di un elefante. Molto peggio andò al tecnico delle luci Jan de Bont, il cui scalpo fu completamente strappato da un felino rabbioso, con conseguente applicazione di “appena” 250 punti sulla cute. L’assistente di regia Doron Kauper, nel frattempo, venne morso alla mascella, alla gola e al pento ed un leone tentò di staccargli un orecchio. La stessa Melanie Griffith subì un grave attacco, con un taglio al volto che richiese 50 punti e un intervento di chirurgia plastica che per sua (e nostra) fortuna, non lasciò segno alcuno, anche se da principio si temette che potesse perdere un occhio. Sul fronte del lato maschile della famiglia non andò affatto meglio: John Marshall ricevette 56 punti per un morso, mentre al fratello Jerry toccò un morso al piede, sul quale oggi scherza dicendo: “Quei leoni avevano un perverso amore per le scarpe da tennis!” Il padre Noel, probabile grande artefice dell’intera follia creativa, finì per pagare il prezzo maggiormente significativo, secondo le precise leggi del karma: venne infatti morso talmente tante volte da iniziare a sviluppare dei princìpi di cancrena (non ci viene detto dove, forse in tutto il corpo?! Chissà.) La maledizione di ROAR non finì lì. La produzione del film si protrasse all’inverosimile, durando quasi 10 anni, durante i quali si ebbero, nell’ordine: un’inondazione che distrusse il set, un incendio boschivo e un’epidemia virale, che costarono la vita ad alcuni dei protagonisti leonini della storia, oltre che condurre ad ulteriori incidenti nella gestione dei superstiti, sempre più innervositi.
Poi alla fine, dopo tutto quel sangue, quella tremenda sofferenza, la fatica e la fiducia incrollabile nella visione che aveva condotto a simili remoti obiettivi, il film uscì nelle sale. Era il 1981 e i finanziatori, dopo una tale lunga attesa, si erano stancati di Noel, della sua famiglia e della sua improbabile creazione. Così il rilascio avvenne in pochi cinema e con una campagna pubblicitaria quasi inesistente. Del resto, alle spese vive, il budget investito ammontava a “soli” 17 milioni di dollari, roba da nulla nel panorama glitterato della sconfinata Hollwood, che mastica persone e sogni come fossero il popcorn. L’incasso finale del film ammontò ad appena 2 milioni e pochi anni dopo, per motivi assai probabilmente contingenti, Noel e Tippi Hendren divorziarono, verso nuove splendide avventure. Nel frattempo la riserva di Shambala, forse il lascito più meritorio dell’intera improbabile follia, si trasformò in un’istituzione permanente, ancora oggi gestita dalla Hendren con un sincero amore per le cose a quattro zampe. E che dire di tutto il resto? A partire dallo scorso 17 aprile, il film è tornato in un numero limitato di sale statunitensi. Gli incassi ovviamente trascurabili di una simile iniziativa dovrebbero, nell’idea dei promotori, aprire la strada ad un successivo rilascio su DVD e Blu-Ray, vera linfa dell’industria cinematografica moderna. Chissà che un eventuale successo, tremendamente tardivo, di una simile terribile curiosità, non contribuisca all’attuale tendenza verso il superamento degli effetti digitali, verso un ritorno al buon cinema di una volta, fatto di cose tanto forti e vere. Che erano, talvolta, addirittura TROPPO vicine.