Una buona iniziativa pubblicitaria, soprattutto ai nostri tempi altamente digitalizzati, dovrebbe funzionare su almeno due livelli: ciò che si mostra e quello che viene implicato, ovvero l’associazione d’idee che si vuole indurre per creare l’immagine del proprio prodotto. Un tipo di risultato, questo, tutt’altro che facile da perseguire, visto che se già il concetto di bello è per sua natura tendenzialmente soggettivo, tanto maggiormente risulta esserlo il complesso e variegato sistema di metafore che costituisce il repertorio culturale di un popolo, ed invero, addirittura di uno specifico target, il destinatario collettivo dell’iniziativa di turno. Dunque, all’inaugurazione della sua ormai famosa campagna 3D on the Rocks, la grande compagnia di bevande Suntory dev’essersi chiesta: “Chi, davvero, beve il whisky giapponese? Chi sceglie un prodotto creato negli anni ’20 con lo specifico scopo d’imitarne un altro, vecchio di secoli?” Un prodotto poi diventato paragonabile a quello stesso, oppure talvolta superiore, grazie a oltre un secolo di perfezionamenti faticosamente coltivati sul suolo tiepido di appena una decina di distillerie. Laddove in Scozia, contemporaneamente, ve n’erano centinaia…Sembra quasi di vederli, riuniti attorno ad un tavolo, i creativi dell’agenzia TBWA Hakuhodo Tokyo, prima propositrice di una tale piccola follia: l’imprescindibile sezione di brainstorming, in cui tutti propongono, si confrontano, fanno cozzare i reciproci metodi operativi. Dev’esserci l’estetica della purezza, dice qualcuno, magari una scultura. L’immagine dominante idealmente risulterà nazionale, come i fiori di ciliegio o il grande Buddha di Kamakura, aggiunge il collega. E infine, forse da un’insigne manager, o magari dall’ultimo assunto, così fortunato già nei primi giorni della sua carriera, la risposta all’esigenza fondamentale: “Dovremmo associare il whisky dei nostri clienti alla bevanda più giapponese che esista, ovvero il tè con il suo sistema di valori.” E per vie traverse, grazie ad una fantastica illusione architettonica, proprio così e stato.
In un bicchiere, campeggiante su di un glorioso fondo nero, si versa il fluido ambrato prodotto dai cereali ammostati, cotti e poi mescolati con l’alcol che gli antichi chiamavano acqua vitae, o in gaelico, la lingua scozzese per eccellenza, uisge beatha: la linfa vitale. Da cui uskebeaghe, usquebaugh ed infine il termine corrente, che alcuni scrivono wisk(e)y, per una disputa mai risolta in merito alla presenza di quella sgradita vocale. Ma sul fondo del bicchiere, una sorpresa: il gelido tetto a punta del tempio Zen più celebre al mondo, quel Kinkaku-ji (Padiglione d’Oro, dalla lucente colorazione del suo tetto) o Rokuon-ji (Tempio del Giardino dei Cervi) che costituisce ad oggi il più fervido punto espressivo dell’arte d’epoca Muromachi (1337-1573) nonché punto d’incontro, simbolico e letterale, tra modi radicalmente diversi di vedere il mondo. Tre di essi, ciascuno rappresentato da un piano del tempio, verso il raggiungimento di uno stato di preparazione ulteriore: lo stile shinden-zukuri dei nobili d’epoca Heian, il buke-zukuri della nuova aristocrazia guerriera e lo zenshū-butsuden-zukuri, mutuato direttamente dalle istituzioni buddhiste del continente. Si trattava di un magnifico reliquiario, sostanzialmente, all’interno del quale constatare l’esistenza del Buddha ed al tempo stesso, in qualche modo aprire la mente per celebrarlo.
Ed è qui che si arriva al discorso della pubblicità della Suntory, un’associazione fondata sul percorso della disciplina dei monaci, che fin dall’epoca della trasformazione in tempio di questo edificio, voluta dal terzo shogun Ashikaga, Yoshimitsu (regno: 1368–1394) si occupavano di custodire e mantenere in salute lo splendido giardino circostante, inclusivo del suo culmine più rilevante: una piccola casupola, parzialmente dismessa, ove recarsi per sorseggiare tra le opere d’arte.
Una buona casa da tè, per sua imprescindibile natura, non avrà foglie d’oro presso le tegole, né alcun tripudio d’opere pittoriche o scultoree. Soltanto un rotolo appeso, generalmente del genere calligrafico, forse una pianta in un angolo, grandi aperture nelle pareti, finalizzate alla contemplazione della natura. E poi, ovviamente, gli attrezzi necessari per preparare la bevanda, sia questa analcolica, oppure.
Modernità: cambiamento. Nessuna teiera di preziosa ceramica, ormai consumata dall’uso. Niente ciotole conformi all’estetica Zen, ciò a dire, imperfette nella forma, asimmetriche o addirittura vistosamente rimesse assieme alla bene e meglio, dopo una sfortunata caduta (si è sempre ritenuto che l’austerità dei mezzi aiutasse a raggiungere l’illuminazione, ma nessuno pensava che un monaco pazzo, nel 1950, avrebbe bruciato tutto quanto!) Chi ha tempo, nel Giappone ultra-tecnologico dei nostri giorni, per simili prassi spirituali? Mettere il Kinkaku-ji in un bicchiere comporta un messaggio preciso. Tutto quello che è venuto prima, noi lo facciamo piccolo e cristallino. L’abbiamo dominato, quel vecchio sentiero di foglie autunnali, fino alle estreme conseguenze di un inverno dei fatti, la gelida sostanza che raffredda il gustoso, bruciante fluido scozzese. Il tè del giardino Zen, che ancora prima che un sapore è una purissima idea, può facilmente sopravvivere all’influenza straniera, corroborarsi della trasformazione all’interno di colossali alambicchi e all’imbottigliamento industriale. Basta guardarlo con occhi appropriati.
Quindi, al di là del messaggio, che come dicevamo è certamente soggettivo, ciò che resta sono i valori estetici di un’ottima creazione pubblicitaria, pericolosamente vicina all’arte. La TBWA, per mettere in pratica la sua complessa visione del ghiaccio scultoreo, ha schierato una macchina profilatrice CNC del tipo comunemente usato per produrre in serie componenti di pietra o metallo, però accuratamente raffreddata, affinché il ghiaccio non si sciogliesse del tutto. I due video internettiani prodotti per lanciare la campagna, tutt’ora disponibili sul canale YouTube della Suntory, mostravano la realizzazione del già citato tempio ed un piccolo astronauta, certamente meno carico dal punto di vista tematico ma pur sempre grazioso.
L’iniziativa, inoltre, è stata corredata di un sito web multilingue, presso cui inviare le proprie creazioni digitalizzate tridimensionali (si consigliava l’impiego del software gratuito Autodesk 123D) per una successiva realizzazione da parte del magico macchinario, e nel caso dei pezzi migliori addirittura la messa in mostra del cubetto di ghiaccio finito, in occasione di un evento organizzato dalla compagnia. Idea estremamente riuscita, questa, che è valsa alla campagna un grado d’interazione sui social networks assolutamente senza precedenti nel campo delle bevande alcoliche, nonché la possibilità di realizzare graziosi piccoli capolavori, spesso basati sulle proprietà intellettuali di altre realtà commerciali, come uno squalo particolarmente spielbergiano, Godzilla, Super Mario, Batman e perché no, anche qualche figura più classica, vedi il David di Michelangelo e Buddha stesso. Un bel modo di celebrare il complesso sistema d’associazioni che fa la cultura del post-moderno.
I whisky giapponesi di Suntory e Nikka, egualmente prestigiosi, hanno recentemente fatto parlare molto di loro, soprattutto per la vincita di alcuni prestigiosi premi internazionali, sistematicamente a discapito di chi quella bevanda l’aveva inventata, all’interno degli antichi monasteri e fra le tribù delle Highlands, in qualità di liquido dalle qualità terapeutiche. Va inoltre notato come, mentre i whisk(e)ys statunitensi, canadesi e australiani abbiano percorso strade sostanzialmente differenti, basandosi ciascuno su diverse miscele di cereali e processi produttivi, quello importato a suo tempo dall’ormai leggendario Masataka Taketsuru, giapponese che viaggiò e lavorò in Scozia, si è sviluppato unicamente a partire dal singolo malto, un processo specifico e direttamente mutuato da quel paese.
Nel 1934 Masataka, stanco di lavorare per l’allora Kotobukiya (la compagnia che sarebbe diventata la Suntory) si mise in proprio presso la cittadina di Yamazaki, subito fuori Kyoto, una sede operativa scelta a suo tempo anche da Sen no Rikyū (1522-1591) massima personalità riconosciuta nell’antica cerimonia del tè, per la qualità eccellente della sua acqua. Qui sorse la distilleria che sarebbe stata la sua fortuna e quella dei suoi eredi, la futura Nikka. Dev’essere stato particolarmente pungente, per le principali personalità europee del ramo, quando nel 2001 la varietà invecchiata 10 anni del suo whisky venne insignita del prestigioso premio “Best of the Best” elargito dalla rivista Whisky Magazine al prodotto invecchiato per 10 anni da un successivo stabilimento costruito a Yoichi, nell’isola nordica dell’Hokkaido. Una collocazione geografica tutt’altro che casuale, questa, vista la specifica ricerca di un clima che fosse il più possibile vicino a quello del paese originario della bevanda. E se questo non basta a darvi l’idea della minuziosa attenzione ai dettagli prestata dall’industria gastronomica giapponese in generale, e in quella del whisky in particolare…
Ma la qualità non è nulla, senza un adeguato supporto d’immagine e il marketing voluto dal mondo moderno. Proprio in questi anni il whisky nipponico, rimasto per quasi un secolo esclusivo appannaggio dei suoi produttori, si sta facendo conoscere grazie ai riconoscimenti negli eventi internazionali, dove sorseggiato “alla cieca” viene spesso scambiato per questa o quella prestigiosa varietà di purissimo e venerando Scotch. Potrebbe dirsi quindi questo, soprattutto, il momento di farlo associare a dei piccoli capolavori costruiti dai computer, frutto di macchine automatiche CNC. Ma l’arte non è forse tutta, artificiale?