Lasciali per terra, sprechi lo spazio e il tempo. Non puoi pensare di collezionare pezzettini di automobili dismesse, borchie deformate. Viti, bulloni, chiodi arrugginiti nello spazio-tempo. Sgorbi sghembi e pezzi spuri. E tutti mi dicevano: un pistone oppure due, senza una camera di scoppio a cosa potrai mai servire! Buttalo via con tutto il resto dei rottami, il suo posto è nella spazzatura. Perché costoro non sapevano la verità. Che anche gli scarti parlano e la loro voce è carica di seduzione: “Brr, siamo tiepidi di un sangue ricco di sistemi, abbiamo una RAGIONE, tanto ancora da DARE…” Se i rimasugli di qualcuno sono il tesoro dell’operoso resto dell’umanità, quando rovistare tra i cumuli dello sfasciacarrozze non è soltanto una semplice scelta ma il futuro possibile delle ragioni di un artista, allora Phairote ha dato la ragion d’essere a un vero e proprio Rinascimento delle cose di recupero. Che va oltre il semplice riciclo, che non ricostruisce meramente, ma proietta innanzi ciò che gli spettatori si aspettano dal bric-a-brac di quei programmi televisivi sul fai-da-te coscienzioso e solidale. Più ti avvicini, meno resti indifferente.
Perché nel suo grande capannone fuori Pattaya, città di 100.000 abitanti nel nord-est della Thailandia sita a circa 130 Km dalla capitale Bangkok, albergano rivisitazioni dei sogni e delle visioni di un’intera generazione, anzi facciamo pure tre. Diversi dal consueto eppure in qualche modo pienamente realizzati: dinosauri vagamente ornati, pecore e cavalli fatti di bulloni, un alieno xenomorfo come quello che seppe regalarci H.R. Giger ma con l’aggiunta delle sospensioni, almeno tre versioni dell’incredibile Hulk: rosso, giallo e grigio scuro. Transformers variopinti in scala oppure rigorosamente monocromatici e almeno da lontano, virtualmente indistinguibili dalla versione cinematografica (in fondo cos’erano quei tecno-guerrieri, se non creazioni antropomorfe fatte in pezzi misti d’automobili…) Ma più ti avvicini a quel recinto, maggiormente scopri piccoli dettagli appassionanti, sopra quelle e tutte le altre cose. Le scaglie sulla schiena dei mostri sono candele d’accensione, mentre sugli arti delle bestie, tendini e tono muscolare vengono resi con innumerevoli catene della bicicletta. I capelli sono frutto d’ingranaggi sovrapposti. Le superfici curvilinee delle schiene arcuate si palesano come un vero e proprio susseguirsi di dadini filettati, forme ottagonali allineate su matrici cristalline, intervallate dall’inserto di qualche gustosa chiave inglese, tanto per spezzare il ritmo delle aspettative. Ogni personaggio è in effetti frutto di dozzine di elementi, raccolti, selezionati e combinati tra di loro, poi saldati, puliti e infine ricoperti da una mano di vernice, per amalgamar quel tutto sconvolgente. Ed è questo un risultato assolutamente degno di nota, nonché adatto al commercio, anche su larga scala….
Dalla breve timeline offerta sul sito rilevante, intitolato Old Steel Art.com – L’arte del vecchio acciaio, o per usare la terminologia in lingua, Ban Hun Lek – si apprende che l’iniziativa ebbe l’origine sulle soglie del 2000 come hobby personale del già citato fondatore. Per evolversi gradualmente nel giro di un paio d’anni, attraverso la rivendita presso negozianti locali di souvenir, poi piccoli negozi d’arte e altri istituti specializzati. Finché il produttore/meccanico-dei-sogni non ebbe il modo di scoprire, come in una magica rivelazione, che l’interesse dei turisti verso le sue creature resuscitate era persino superiore a quello dei suoi connazionali, e che il metodo per crescere sarebbe stato vendere le sue crezioni online, direttamente dal produttore all’aspirante mecenate.
A seguire, una crescita smisurata dell’attività. Con il primo salto qualitativo dei guadagni, subito reinvestito, Phairote acquista l’attuale base operativa nella località di Angthong, non dissimile dai tipici terreni usati per discariche o depositi di veicoli dismessi. Ciò si rivela assai probabilmente funzionale, vista la natura e il tono dell’impresa. Ben presto, per quella che deve essere parsa una forza magnetica invisibile, il flusso naturale dei detriti metallici devia dritto verso le sue mani, pronte a farne qualche cosa di stupefacente. Come sarà facile intuire dalla quantità di pupazzi che compaiono nei video effettuati in questo luogo, ormai da tempo l’artista non lavora più da solo. Alla maniera degli antichi scultori celebrati nella storia dell’arte, si è piuttosto circondato di apprendisti ed aiutanti, che a loro volta sfornano pezzi di varie forme e dimensioni, adatti a tutte le tasche e i giardini di possibili acquirenti. Peccato che sul sito ufficiale, scritto in un’approssimativa lingua inglese, non compaiano le firme di ciascuna delle opere mostrate. Non mancano comunque raffigurazione di personaggi più tipicamente legati alla cultura della Thailandia, come diverse versioni del dio induista Ganesha, la cui proboscide è talvolta resa grazie a un susseguirsi di vistose molle elicoidali. Una cosa, ad ogni modo, è certa: difficile acquistare una di queste statue fin qui dall’Italia, visto il peso medio di un uomo-elefante alto un metro e mezzo e fatto interamente di metallo!
L’arte metallica dell’officina Ban Hun Lek può essere considerata il frutto di un sublime sincretismo. Da una parte abbiamo la scelta dei soggetti, dall’altro l’originalità dei metodi applicati. Come appare chiaro fin dal primo sguardo, qui non siamo di fronte alla messa in opera di una visione insostanziale, la rappresentazione del pensiero puro grazie a metodologie scultoree. Né traspare, almeno nella maggior parte delle opere mostrate, alcuna narrazione originale, ovvero la creazione di premesse situazionali frutto diretto della mente dell’artista. Si ricerca, piuttosto, la reazione immediata dell’osservatore, quell’esclamazione che poi è pure un sentimento: “Ma io quello lo conosco!” Seguito dall’inevitabile corollario: “È incredibile che sia riuscito a farlo in questo modo.”
I meriti autorali maggiormente degni nota, quindi, sono appartententi primariamente alla sfera tecnica, all’abilità nella ricerca di materiali e la loro ritrasformazione in qualcosa di ancora utile, senz’altro bello. C’è anche da dire che assemblare personaggi tratti direttamente dal mondo della cultura Pop dei nostri giorni, visto il mondo in cui viviamo, offra sincere prospettive di guadagno. Ed in effetti non a caso questa stessa identica prassi operativa, del riciclare scarti per farne pupazzi da giardino, sta venendo praticata in questo esatto momento da numerose altre officine d’Asia, tra cui almeno un’altra famosa dello Hunan, messa in piedi nel 2007 da Yu Zhilin e suo figlio Yu Lingyun, specializzata nella (ri)costruzione dei Transformers, con un guadagno annuale stimato di 170.000 dollari in valuta locale. Beh, si può ancora parlare di copyright, quando tutti quanti attingono serenamente dall’opera di creativi tanto distanti nel tempo e nello spazio? Del resto è difficile capire, dalla nostra estrema distanza terracquea, se la doppia realtà commerciale nasca da un intento di riproporre i metodi del primo opificio, oppure ciascuna etichetta sia il frutto della cultura dei rispettivi paesi, ciascuno ugualmente affascinato dal mondo del cinema fantascientifico d’Occidente. Va pure detto che i film di Michael Bay riscuotono da sempre un successo assolutamente spropositato nell’intera Cina e in tutte le regioni circostanti. E chi non vorrebbe Megatron nel suo giardino? Chissà poi quale sarà l’effetto (certamente positivo) di un siffatto nume tutelare sulle energie domestiche studiate dal Feng Shui!