Dire che guidare nel Circondario Autonomo di Jamalo-Nenec richiede coraggio è come affermare che il mare è umido, o il miele appiccicoso. Già si perpetra quotidianamente, per il tramite d’innumerevoli commenti ai video realizzati sul campo, lo stereotipo delle strade russe come luoghi d’incipiente perdizione, ove i cinghiali attraversano fuori dalle strisce, i carri armati non danno la precedenza, i meteoriti arrivano soltanto quando meno te lo aspetti. Aggiungi a tale serie di possibili disgrazie, tutt’altro che immateriali ed anzi riccamente documentate, la naturale inospitalità della Siberia, terra di gas e petrolio ma anche ghiacci eterni e nebbia semi-permanente per…Dare un significato nuovo alla condizione del mal d’auto! Indotta questa volta, oltre che dalla frequenza delle buche in strade troppo utilizzate, da quel sentimento incontrollabile che ha il nome di paura. Così capitava, nell’ormai distante 2013, che uno di cotanti eroi del quotidiano (abitanti di simili lidi preoccupanti) si avventurasse sul tragitto niente affatto insolito del ponte sopra il fiume di Nadym, presso l’omonima comunità di quasi 50.000 forti anime di latitudini remote. Stiamo parlando, d’altra parte, di un grande centro abitato fondato nel 1967, come ausilio e base di partenza verso tanti pozzi d’estrazione di risorse energetiche preziose. Costui naturalmente e per nostra estrema fortuna, disponeva della canonica telecamera da cruscotto, necessità acclarata di ogni automobilista che si trovi ad Est di Smolensk, tra le valli, i fiumi e le montagne del paese più vasto e misterioso al mondo. Perché ciò che gli stava per succedere era già destinato a trasformarsi in un grande successo internettiano, uno di quei video che trascendono il contesto nazionale diffondendosi grazie al sentito dire, fino a ricevere dei brevi articoli sui principali siti dei giornali. Riguardiamolo oggi: possibilmente senza trattenere il fiato.
Esistono tre modi per raggiungere la remota e relativamente popolosa cittadina di Nadym: utilizzando la notevole creazione ingegneristica della ferrovia di Salechard-Igarka, 1297 km di metallo assemblati assieme tra il 1949 ed il 1953 verso la Siberia settentrionale con un investimento di oltre 260 milioni di rubli ed il sudore sulla fronte dei 120.000 prigionieri di un gulag locale, felicemente reclutati a vantaggio dell’allora nascente industria d’estrazione e dei trasporti preter-contemporanei. Un impianto senza pari per collocamento e funzionalità, definito ancora e alquanto suggestivamente, e non è difficile capire la ragione, “Il binario della morte” o “Strada della perdizione”. In alternativa si può prendere la comoda via del cielo, direttamente dagli aeroporti moscoviti di Domodedovo e Vnukovo, fino ad uno scalo civile sito ad appena 5 km dalla metà, che non sarà un La Guardia di New York, ma presenta assai probabilmente un certo grado di praticità situazionale. O per lo meno, un impianto di riscaldamento funzionante durante una buona parte del tragitto. Entrambe scelte valide, queste, ma certamente non adatte a chi abita in Siberia tutto l’anno, e il cui l’essere pendolare non potrà prescindere dal mettersi al volante…
Il fiume di Nadym, che trae l’origine nel lago Numto e sfocia nel mare di Kara, ha una particolarità: scorre soltanto in estate. Durante i mesi in cui la temperatura scende ben al di sotto dello zero, infatti, si trasforma in un’unica lastra di ghiaccio, tranquillamente percorribile con ogni sorta d’implemento veicolare. Per questo si è cercato, attraverso lunghi anni di hovercraft, traghetti e zattere di vario tipo, di risolvere il problema della viabilità stagionale, possibilmente senza il corposo investimento necessario per approntare una struttura permanente. Nessun problema: simili soluzioni ingegneristiche costruite ad-hoc, guarda caso, sono tra i punti forti di una qualunque via tecnologica che possa definirsi propriamente “russa” come nel celebre dilemma della penna spaziale americana, qui soprasseduta grazie all’impiego di una semplice matita (non soltanto una leggenda metropolitana). Così trovò l’applicazione, in quel contesto di necessità, il rinomato sistema di ponti mobili abbreviato in PMP-60, trionfo del senso pratico sovietico dell’era della guerra fredda.
La necessità e il ritmo della tecnologia ad impiego bellico, generalmente, può vantare caratteristiche di efficienza superiori, benché l’affidabilità possa variare, sulla base del grado di emergenza correlato a ciascun dispositivo.
Il ponte galleggiante modulare sovietico in questione ad ogni modo, che qui vediamo scaricato da alcuni eccezionali camion fuoristrada Kraz 255 durante un’esercitazione, ha costituito la più grande rivelazione nel campo dell’attraversamento di ostacoli acquatici per le armate di mezzo mondo, che ne hanno subito copiato la progettazione, Stati Uniti inclusi. Ed è molto semplice: ciascun singolo componente, del peso di sette tonnellate, si compone di tre galleggianti percorribili (in gergo pontoons) montati su due elementi cardine in grado di auto-bloccarsi. Una volta scaricato dai trasportatori all’interno del corpo d’acqua da attraversare, per ciascun galleggiante si attiva un meccanismo che ne causa il dispiegamento, mentre la sua massa inizia a scivolare trascinato via dalla corrente. A quel punto interviene una seconda squadra di operatori, armati di motoscafi, che radunano il numero richiesto di blocchi e li collegano tutti assieme, in un tempo complessivo che può variare in base alla larghezza del fiume, ma che per i 380 metri si aggira sui 40-50 minuti complessivi. Una differenza notevole con il giorno o due di lavori, tempo minimo per approntare un ponte comparabile con metodi convenzionali, ovvero tramite l’impiego di gru ed elementi appoggiati sul fondale. Nonché un’ottima soluzione al problema di Nadym, visto che al termine dell’estate l’intero susseguirsi di pontoons può essere richiuso, caricato sui camion e portato via. Purché non si aspetti troppo a lungo:
Ecco un’ottimo esempio di ridondanza delle sicurezze di attraversamento: non soltanto il ponte è stato fornito di una fila di rassicuranti salvagenti, ma l’intera superficie sottostante si è completamente ghiacciata. Per chiunque avesse intenzione di attraversare il fiume con un camion a pieno carico, come fatto nel disastroso video di apertura, ecco, QUESTO sarebbe stato un buon momento, utile a preservare l’incolumità di eventuali altri automobilisti di passaggio. Perché il sistema PMP è molto affidabile, soprattutto nella sua versione con capacità di carico di fino a 60 tonnellate, ma chiaramente tutto ha un limite che dovrebbe andare di pari passo col buon senso. Dote che talvolta latita sulle strade asfaltate di ogni nazionalità. L’attribuzione delle colpe, nel video disastroso dell’attraversamento del 2013 costato parecchio ad una Ford Focus e una Lada bianca (l’hydro-locking non è uno scherzo) costituisce un vero rollercoaster di considerazioni contrapposte: ecco l’evidenza di un’autotrasportatore troppo impaziente, che tentando di saltare la fila causa l’equivalente d’acqua dolce di un tragico tsunami. Ma occorre anche considerare che il ponte galleggiante, per sua imprescindibile natura, non è certo fatto per le soste a lungo termine, ed allora? Possibile che il vecchio residuato rugginoso causa dell’ingorgo, probabilmente superato da secoli l’ultimo tagliando, si sia andato a ingolfare proprio lì, dove mai avrebbe dovuto… Bloccato lì, con un carico che raggiungeva la portata massima del ponte già in buona parte sprofondato, l’autista del camion poteva fare solamente due scelte: sacrificare potenzialmente un paio di malcapitati, oppure andare giù con tutto il resto, trasformandosi nell’ennesimo relitto sommerso vittima delle pericolose circostanze.
Giro della morte, torna al punto di partenza: perché costui non ha aspettato che il tratto galleggiante fosse totalmente vuoto, prima di partire e attraversarlo a gran velocità? Certi dubbi non verranno mai chiariti. A meno di studiare il cirillico corsivo.