La prima regola dell’Olympic Game Farm è non parlare dei bisonti. Seconda regola: nemmeno su Facebook, per piacere. Terza regola: dategli soltanto pane bianco, costa un dollaro a confezione. Quarta regola: chi ferma il suo motore è perduto. Quinta: stai SEMPRE attento alle dita. Per un solo credo, senso ed obiettivo. L’essenziale identità di luogo e di contesto. Vuoi divertirti? Ti stiamo aspettando. Però non venire con un’automobile convertibile, che resti aperta alle intemperie o alla saliva! Te ne pentiresti molto… Amaramente. Situato oltre i monti e le foreste dell’omonimo parco nazionale, nel freddo rigoglioso stato di Washington del profondo Nord-Ovest statunitense, questo è un luogo in cui si vendono esperienze. “Accettiamo Visa, Mastercard e Discovery” si apprende presso il sito ufficiale, assieme alle istruzioni per raggiungere la meta ed il prontuario, un po’ inquietante, di cui parzialmente sopra. “Potrete incontrare direttamente dalla comodità del vostro veicolo su quattro ruote: il bisonte americano, il leone africano, la zebra, l’alce di Roosevelt, il cervo di Sika, lo yak domestico, il lama, la tigre siberiana, il puma di montagna, la lince canadese ed artica, l’orso kodiak e quello nero, il lupo della tundra, il coyote, il procione, il cane della prateria, il coniglio.” Caspita, addirittura il coniglio! E cosa anche migliore, ai numerosi visitatori giornalieri verrà anche permesso di farsi Babbo Natale delle molte delle variegate bestiole in questione, usando esclusivamente del cibo ufficiale fornito dai gestori dello zoo-parco dei divertimenti. Un paragone tra location tutt’altro che azzardato, se si pensa che la fortuna di questo luogo fu fatta proprio a partire dagli anni ’60, grazie ad una joint venture con la Walt Disney Company dei tempi d’oro, che cercava un luogo in cui tenere i protagonisti dei suoi film dall’impronta maggiormente naturalistica e più difficili da adattare per l’Italia, come Charlie the Lonesome Cougar (1967), The Incredible Journey (1963) tratto dall’omonimo romanzo canino di Sheila Burnford e Grizzly Adams, una serie televisiva sulle avventure del cacciatore solitario titolare, che andò in onda tra il 1977 e il ’78. All’apice del suo successo cinematografico, nel 1972, la Olympic Game Farm venne quindi aperta al pubblico pagante, per fare la gioia immisurabile di grandi, piccini, quadrupedi e pennuti.
Ma c’è un problema, essenzialmente comune a quello di tanti altri safari motoristici sparsi in giro per il mondo: si stanno evolvendo. Come in un film fanta-biologico in cui s’inneggi fra scagliosi mostri alla teoria del caos, il continuo riproporsi di una situazione rigidamente controllata e apparentemente innocua (l’autista che guida a bassa velocità, per porgere cibarie fuori dal suo finestrino) porta a oscillazioni incontrollabili dei presupposti con le loro conseguenze. Una creatura grossa e pacata come un bisonte, in linea di massima, non dovrebbe neanche avvicinarsi ai remoti discendenti dell’insostanziale protoscimmia, la cui essenza, dal suo irsuto punto di vista, appariva certamente rumorosa e indisponente. Né tanto meno, gli appartiene il gusto farinoso del pane, frutto di un processo produttivo che deriva dalle fiamme dell’industria. Ma l’assaggio è conturbante, così come le sue conseguenze, tanto spesso, imprevedibili.
E che poteva fare, alla fine? Immaginatevi voi una testa gigante come quella, non diversa neanche nell’aspetto da un ariete medievale, che penetra oltre il ciglio del vostro sottile finestrino, avvicinando il muso indagatore al grembo carico di leccornie. Un bisonte è una macchina che ha un triplice obiettivo. Fagocitare, riprodursi, dormire quanto basta. Con il primo dei tre assiomi che è in effetti l’unico davvero faticoso, in quanto l’erba verde è notoriamente distante dalla bocca, occorre chinarsi e poi digerirla attraverso una sequenza di diversi stomaci, dopo un’intero giorno di masticazione. Mentre il cibo umano è sempre pronto all’uso, se riesci a guadagnartelo a discapito dei simili e vicini.
Non si può davvero pensare che un animale capisca a pieno la sua condizione di figurante d’intrattenimento, oppure i limiti di manovra offerti alla sua fame. Lui/egli/esso semplicemente, dopo un tempo medio, apprende che le strane scatole vaganti sull’asfalto sono piene di due cose: bipedi variabilmente urlanti e buon pane. Con i primi non ci fa molto, mentre il secondo…
Rivolta di Spartaco il canarino con tutti gli altri membri del Bird Club: l’avevano profetizzato. È un lavoro difficile, quello del gestore di un safari per automobilisti autogestiti. Perché occorre fare i conti quotidianamente con l’assenza di precauzioni e senso comune di molti visitatori, che fermano inopportunamente il veicolo, finendo per trasformarsi in ottimi sedili per bisonti, orsi ed alci, superfici da graffiare gentilmente nell’attesa di gustose elargizioni. E poi, la paura. Giacché logica vorrebbe dimostrare, come gli è da sempre consono, che colui/lei che teme certe specifiche tipologie di bestie, se ne terrà adeguatamente lontano. Ma la logica non è di questo mondo, dedito all’adrenalina da trasmettere degli spettatori digitali, anche a costo di accorciarsi la giornata.
Questa seconda scena è stata registrata presso il Circle G Ranch Safari Park dello stato del Tennessee, dove un’altra donna, la cui voce e contegno risultano virtualmente indistinguibili dalla collega del bisonte dell’Olympic, ha avuto un incontro piuttosto preoccupante con un emu (Dromaius novaehollandiae) monocolo e particolarmente inquisitivo. Come bene ha presente chiunque abbia visitato una piazza frequentata abitualmente dai turisti, fra tutte le creature che vivono di beneficenza occasionale non c’è n’è una più vorace del piccione. Tranne il gabbiano. E considerando i volatili a partire dalla sua ragguardevole dimensione, nessuno è più ostile e territoriale di lui, escluso il cigno. Ora, un cigno può davvero rovinarti una giornata. Ma sai che c’è di peggio? Uno struzzo. Ecco, l’emu è una specie di struzzo, leggermente più piccolo, che può spingere i suoi 55 Kg ad una velocità di oltre 55 Km/h. Ad oggi è aperta la disquisizione in merito al fatto che i dinosauri avessero le piume, ma una cosa è invece resa chiara dall’evidenza: certi pennuti sono comparabili nella capacità d’incutere timore. Soprattutto se affamati.
La situazione è in bilico tra il desiderabile stato di quiete e un senso di catastrofe incipiente. La fine di un sogno, utile a far vedere certi abitanti decaduti dell’ormai gremito globo terrestre, per una volta senza la barriera di una gabbia allo zoo, né il vetro virtualizzante di uno schermo televisivo o internettiano. Chiudersi in un automobile per visitarli, in fondo, è un chiaro atto di penitenza culturale: “Onorevole possessore dalla folta chioma leonina, capisco il tuo diritto ai campi sconfinati della prateria.”
Ti ho tolto la libertà, gli spazi e le tue prede naturali, perché ti voglio bene. Quindi, nel momento del nostro incontro tanto significativo, per un breve periodo di profonda riverenza, sarai tu fuori, mentre io nella scatola. Per darti pane, pane vivificatore. Per guardarti da lontano e farmi un breve selfie con quel muso umido e tante vibrisse cariche d’aspettative. Dopo tutto, um, non sai aprire gli sportelli, giusto? Non sei mica un…Meow.