Serpi d’acciaio, le spade più pericolose del Kerala

Urumi Sword

Dev’essere la quasi completa assenza di protezioni, esclusa una coppia di piccoli scudi rotondi, a dare un che di gladiatorio alla sequenza. Oppure, forse, il modo in cui i due contestanti si studiano a vicenda, girandosi attorno con fare minaccioso che non trova traduzione in gesti seriamente intenzionati a nuocere, visto lo svolgersi di quello che era assai probabilmente soprattutto uno spettacolo, mirato all’intrattenimento del pubblico pagante o digitale. “Vi state divertendo? Non siete qui per questo?” Sembra quasi di sentire con tono beffardo, prima e/o dopo che i due moderni depositari dell’antica tradizione delle genti Ezhava provenienti dallo stato del Kerala, con fragore clamoroso, inizino a danzare con la morte. O per essere maggiormente specifici con le loro saettanti urumi, queste spade assai particolari che potevano essere nascoste e trasportate ovunque. Pensateci: la qualità maggiore dell’acciaio è la durezza, ma immediatamente dopo quella, nella mente dei suoi primi fabbricanti, spiccava la sua innata flessibilità. Ecco qui un modo per trattare il materiale ferroso estratto dalle viscere del mondo, la cui purezza era tutt’altro che sicura, tramite l’aggiunta di un contenuto carbonifero particolare, in grado di renderlo diverso da ciò che era. Un filo più tagliente, un nucleo interno indistruttibile. Ovvero la certezza, nei propri scontri futuri, di disporre di un attrezzo valido a proteggere la propria vita. Fattore tutt’altro che trascurabile nei tempi precedenti alla moderna civiltà.
Così non era insolito, fin dal primo secolo a.C, che i coloni provenienti dallo Sri Lanka, inviati a pacificare fertili coste meridionali del sub-continente indiano per un ordine ancestrale del re Bhaskara Ravi Varma, si armassero delle progenitrici del riconoscibile talwar o tulwar, la scimitarra ricurva che tanto rassomiglia a quelle della tradizione turca. Ma la più classica delle armi bianche, il nostro simbolo della cavalleria, aveva un problema, soprattutto, nella società dell’India classica divisa in caste: non poteva scomparire sotto agli abiti comuni. Ed era probabilmente assai difficile giustificare la presenza di un tale ingombrante fodero alla vita di chi aveva insufficienti privilegi, sangue nobile o pretesti similari. Pensateci: è sempre stato da un simile presupposto, il bisogno di segretezza, che nacquero e fiorirono alcune delle arti marziali maggiormente amate dai coreografi dei nostri giorni. Non era certamente facile proteggersi da chiunque, inclusi i propri superiori nel consorzio societario, senza mostrarsi già pericolosi al primo sguardo. Le tecniche cinesi di combattimento con il kon, ovvero un semplice lungo bastone. Il nunchaku giapponese, evoluzione di un attrezzo per trebbiare il grano. La pipa, il cappello, il ventaglio da combattimento. E così anche le spade-frusta urumi, parte della tradizione marziale del Kalaripayattu, tanto flessibili da poter facilmente essere avvolte attorno alla vita e poi coperte con la cinta, oppure posizionate in modo tale che spuntasse fuori soltanto l’impugnatura, facilmente sottovalutata come fosse parte di un corto pugnale (nella variante moderna dell’arma, quest’ultima è indistinguibile da quella del tulwar). Mentre bastava un attimo, quando necessario, per srotolare l’inquietante implemento, ed iniziare a mulinarlo con ferocia inusitata. E pensate addirittura questo: nella variante prevista dalla versione usata nell’Agampora, la principale arte marziale dello Sri Lanka, l’urumi poteva presentare anche più di una lama flessibile, trasformandosi di fatto nell’equivalente metallifero del gatto a nove code. Il coraggio necessario per brandire una simile arma, in effetti, doveva essere soltanto di poco inferiore a quello di chi sfidasse il suo proprietario…

L’arte marziale indiana del Kalaripayattu è la più antica tecnica di combattimento ancora correntemente praticata, in speciali palestre dette kalari, all’interno delle quali si studiano anche tecniche di meditazione, guarigione, retorica, astronomia e teatro. Anticamente ne esistevano tre varianti, tutte derivanti dal corpus degli insegnamenti degli Ezhava: il Dronambilli, o Kalaripayattu del sud, praticato dalle caste indiane dei Nadar, Kallar e Thevar, nonché dai Malabari a sud di Travancore, che poneva l’enfasi sulle prese a mani nude e i colpi portati in corrispondenza dei punti di pressione del corpo umano, come previsto anche da molte arti marziali dell’Estremo Oriente. Questa particolare tradizione oggi si è estinta e la conosciamo solamente attraverso alcuni manuali. Il Kalaripayattu centrale invece, praticato nella parte nord del Kerala propriamente detto, si specializza nella preparazione della parte bassa del corpo all’impiego di calci devastanti e all’ottenimento di una mobilità superiore, con un approccio non dissimile da quelle del moderno taekwondo coreano, ma con posizioni e gestualità ispirate all’aspetto esteriore degli animali, esattamente come avviene nel Kungfu cinese.
La spada urumi nello specifico, assieme a tutto il resto di una ricca serie d’implementi di offesa, faceva parte del Vadakkan Kalari, la versione più settentrionale dell’arte in questione, praticata fino a buona parte della costa del Malabari. I suoi maestri, noti come i gurukkal, venivano temuti e rispettati, poiché si riteneva che i loro segreti fossero stati trasmessi agli uomini direttamente da Parashurama, il sesto avatar del dio Vishnu.

Kalaripayattu
Questa performance di Kalaripayattu, tenutasi a Bangalore nel 2007, offre uno sguardo piuttosto completo sulla serie delle tecniche e le armi di questo approccio piuttosto diretto alla crescita fisica e spirituale. Pugnali, spade, il micidiale mulinare dell’urumi e infine anche una breve danza, versione meno ritualizzata e senza costumi specifici delle rappresentazioni Kathakali.

La mitologia religiosa dell’India, poco approfondita dai creativi contemporanei di portata internazionale, presentava del resto numerosi riferimenti ad armi mistiche sovrannaturali. Spade, archi, lance, frecce: gli Astra, o strumenti sovrannaturali, potevano essere evocati dalle diverse divinità grazie all’impiego di una formula magica, palesandosi improvvisamente pronte all’uso esattamente come una cinta fatta in lamina d’acciaio e poi nascosta sotto gli abiti di un viaggiatore. Ed è forse anche in questo fattore mistico legato al culto delle armi che può ricercarsi l’antico velo di mistero legato alla produzione del wootz, il particolare metallo carbonifero, dalle vistose venature puntinate, che fu secondo gli studiosi il punto di partenza per l’acciaio di Damasco. Nonché un remoto progenitore, assai probabilmente parallelo e non collegato, alla celeberrima katana giapponese.
La particolarità di questo procedimento produttivo, le cui origini si perdono nelle nebbie del tempo, era il suo giovarsi di una miscela di erbe, legno ed altre sostanze, cotte in un forno d’argilla insieme al metallo fuso, verso la formazione di un reticolo nella struttura cristallina dell’arma, che poteva renderla virtualmente indistruttibile. E ciò non è che un singolo esempio della sconfinata sapienza metallurgica dell’India classica, che seppe produrre numerose meraviglie d’offesa, fra cui appunto la tremenda lama-frusta dell’urumi.

Kathakali
Nel Kathakali ogni colore ha un suo significato: il verde indica probità, e viene riservato agli dei e gli eroi della narrazione. Il nero è usato per gli uomini malvagi, mentre i veri e propri demoni presentano un volto quasi del tutto rosso. Le donne e i vecchi saggi, invece, vengono rappresentati con un trucco più realistico e meno marcato.

Il Kalaripayattu, come dicevamo, non era soltanto un metodo per far la guerra ma anche di crescita spirituale e finalizzato allo studio del concetto di divinità. Questa antica tradizione, che si dice venne personalmente adottata e poi esportata dal grande monaco viaggiatore Bodhidarma, si giovava di una serie di mudra, o particolari movimenti delle mani, che finirono per trovare nei secoli un’applicazione diretta nei templi induisti, come ausilio alla recitazione. Nello stato del Kerala esiste infatti, fin dal sedicesimo secolo d.C, una serie di otto rappresentazioni teatrali dette Krishnanattam, fondate sulle storie e le tribolazioni di Krishna, forse il più amato fra tutti gli avatar del Protettore della Trimurti, il sommo dio Vishnu. Questa serie di racconti venivano messi sul palcoscenico nel corso di un’intera notte, durante la quale gli attori, con un pesante trucco e costumi estremamente complessi, davano fondo alla loro preparazione fisica assolutamente non trascurabile. Fu quindi una conseguenza inevitabile di tali circostanze, la progressiva scelta sempre più frequente di interpreti che fossero stati addestrati nei kalari, fino al punto che ancora oggi si ritiene che un guerriero addestrato sia il migliore disponibile nel Kerala. Il Kathakali, ovvero l’estensione successiva di questa serie di rappresentazioni rituali, oggi include anche opere straniere, come storie della mitologia greca o drammi shakespeariani.
Si fa un gran parlare, ai nostri giorni, della tradizione millenaria delle tecniche di combattimento della Cina e del Giappone, tutte collegate alla radice comune del monastero di Shàolín-sì. Il complesso buddhista sulla cima del monte Sōng nella regione dell’Hunan, dove tanti giovani aspiranti Bodhisattva (santi salvatori) scelsero di percorrere la via del pugno chiuso e delle armi, prima di raggiungere uno stato adatto all’illuminazione. Ma la realtà è facilmente desumibile dall’antico testo del Viaggio in Occidente (1592 d.C. ca.) la storia romanzata del monaco Tripitaka, l’antesignano folkloristico dello stesso Bodhidarma, che viaggiò per riportare nella sua Terra di Mezzo gli antichi sutra custoditi sopra il Picco dell’Avvoltoio, a qualche migliaio di chilometri dalla fonte originaria del Kalaripayattu. Perché assieme alla sua eminenza, nel momento tanto atteso del ritorno, oltre alle sacre pergamene c’erano un cavallo magico figlio del dio del mare, un orco guerriero, lo sboccato maiale antropomorfo Zhu Bajie e soprattutto lui, lo Scimmiotto, quel Sun Wukong con il suo bastone da combattimento in grado di allungarsi sulla base del bisogno. E se non era quell’arma, un’Astra del tutto comparabile agli implementi branditi da Vishnu…

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