Ciò sei adesso, noi lo eravamo in precedenza. Quello che noi siamo, tu lo diventerai: ceneri o cadaveri, ossa sbiancate dall’incedere del tempo. Un ciclo progressivo di rinnovamento che si blocca all’improvviso, dal prima verso il dopo, l’oggi e poi il domani e quindi l’altro ieri, giusto quando abbiamo superato la coscienza… Non c’è nulla di vitale, finché l’esistenza verrà preservata in forma fossile, ben oltre ogni possibile speranza di tornare indietro. Finché all’improvviso, Jurassic Park (il cinema letterario, soprattutto in lingua inglese, sa creare neologismi) dalla zanzara ante-mondana, comodamente surgelata dentro l’ambra resinosa, si estrae il codice genetico da usarsi nella resuscitazione. E tutto si ricicla, addirittura l’esistenza! Dei dinosauri, come gli altri umili resti: creature quasi leggendarie con i bit ormai appannati, schede grafiche desuete, processori Pentium 2. I vecchi PC, strumenti del demonio già usati negli uffici delle decadi trascorse o spesse volte nelle case, per giocare a fare i controllori del bilancio familiare, et cetera si aggiunga a profusione. Del resto, l’acido è già pronto. Ciò che resta è fare a pezzi i loro corpi.
Perché un sistema complesso, sia questo biologico o del tutto mineralizzato, artificiale, ha pur sempre bisogno di elementi di raccordo, ovvero le giunzioni tra i diversi organi della sua essenza. E chiunque abbia mai messo mano dentro quel cassone che risiede accanto al monitor, svitato i suoi bulloni e approfondito i componenti, ben conosce il punto più splendente ed aureo (per quanto concerne la materia prima) di ciascuna scheda di supporto alla CPU: l’elemento di raccordo con la scheda madre che noi chiamiamo informalmente pettine per il suo aspetto zigrinato, mentre gli americani definiscono, con diversa analogia di forma, semplicemente finger (il dito). Il che in questo caso è una fortuna, poiché ha permesso all’alchimista di applicare un titolo che fosse sia corretto, che davvero accattivante. Condiviso guarda caso, con il terzo opus della serie di James Bond – 007 Missione: Goldfinger! C’è dell’oro in Alabama, c’è dell’oro giù nella miniera, vecchio mio. Ma tu ci devi credere, per meritarti di trovarlo.
Lui ci aveva creduto eccome, all’incirca verso un annetto fa, quando sotto lo pseudonimo allusivo indeedItdoes (ovvero: Certo Che Lo Fa!) Si era preso in carica di divulgare un meccanismo chimico, complesso e molto funzionale, per corroborare la ricchezza personale utilizzando scarti informatici raccolti in giro. Se ne parla, talvolta, con sentito dispiacere: il modo in cui un qualsiasi tipo di calcolatore, a partire dal proprio vecchio cellulare fino alla più potente delle workstation (non si sfugge all’obsolescenza) contenga una quantità relativamente trascurabile di sostanze potenzialmente preziose, come il nickel, il piombo, il rame e sopratutto l’oro puro, ma legate in modo quasi indissolubile alla plastica dei componenti. Separarle non è facile. Tanto che persino lui, per farlo, ha scelto di tenere solamente il meglio filosofico, quell’agognata, augusta Pietra di una volta…
Funziona così. Per prima cosa, come potrete immaginare, si spezzano via i pettini dal resto delle schede informatiche da buttar via. Quindi, una volta radunati i rimasugli, questi si mettono dentro a un colino in materiale plastico e una bacinella. Ricordate: “La vasca da bagno con gli acidi non lega bene, J. Pinkman!” Simili procedimenti presuppongono l’impiego di strumentazione protettiva adeguata, nonché soprattutto di uno spazio adeguatamente ventilato, pena l’inalazione di vapori estremamente poco salutari. Ma bando alle divagazioni, è già tempo di versare i due pezzi forti: due ampolle, l’una piena di purissimo acido idroclorico (HCl) l’altra con il verde raganella del cloruro rameico (CuCl2) che si occuperà di fornire un maggiore contenuto ionico al composto, provvedendo a facilitare la separazione dell’oro dalla sua sede artificialmente indotta in fase di fabbricazione industriale. Ciò che manca, a questo punto, è soltanto l’aggiunta di una mini pompa per acquari (6 volt di potenza) che ossigenando per un tempo medio l’acido, ne aumenterà il potenziale corrosivo atto a dissolvere lo strato di metalli comuni tra la plastica e l’insolubile, sacerrimo El Dorado. L’apparato, messo assieme in un deposito privato o luoghi similari, verrà quindi lasciato a mollo per circa una settimana, periodo durante il quale il liquido diventerà praticamente nero, mentre i pettini perderanno una buona parte della loro copertura originaria, che si depositerà per effetto della gravità sul fondo della bacinella, superando i varchi del colino. Una volta lavato e setacciato ulteriormente il contenuto di quest’ultimo, ricavando in genere un altro po’ di foglioline da aggiungere al totale, si otterrà un miscuglio di residui metallici ed altre particelle più o meno preziose, non ancora degne di essere considerate vero oro. Per passaggio obbligato, è quindi tempo di applicarsi nella liquefazione…
L’oro colloidale, o oro liquido, è uno stato del nobile materiale in cui la sua essenza è stata ridotta a particelle microscopiche sospese in un liquido, in questo caso la miscela originaria di acido cloridico e cloruro rameico, subito rabboccata con una concentrazione di HNO3 (acido nitrico) e riscaldata grazie all’impiego di un fornello elettrico d’appoggio. Ciò che il chimico hobbista stava facendo in quel frangente, in effetti, era creare l’acqua ragia: l’unico solvente al mondo in grado di dissolvere l’oro ed il platino, un procedimento ideale per procedere alla loro purificazione. Quindi la sostanza risultante viene più volte filtrata mediante l’impiego di una carta semi-permeabile, fino all’ottenimento di un fluido giallo paglierino, da cui sarà ridotto (termine tecnico) finalmente e dopo tanto lavoro, l’agognato premio del creatore. Il video si conclude lì, dopo aver mostrato brevemente la micro-pepita risultante, ma niente paura: il seguito è stato caricato dall’autore prima del suo ritiro dalle scene digitali.
Eccolo qui, in tutta la sua spettacolarità. Il contenuto acidico del composto, inserito in un sistema di alambicchi, viene ulteriormente potenziato con l’aggiunta di un acido ossalico e molti, molti ioni. Questi potrebbero provenire, a scelta, da un semplice pugno di sale da cucina, oppure, volendo usare un approccio più rapido ed efficiente, da una soluzione concentrata di perossido di sodio, che velocizzerà di molto la trasformazione. L’oro colloidale, quindi, precipiterà gradualmente verso il fondo dell’ampolla, mentre il colore del composto cambierà verso il rosso vivo, un pigmento considerato un tempo assai prezioso nella produzione di vetrate da chiesa, oltre che uno stato imperfetto della pietra filosofale. E fa piuttosto impressione considerare come, in tempi medievali, dopo una serie di trattamenti ulteriori e largamente sconosciuti si arrivasse a bere un simile composto, considerato un passaggio intermedio verso l’immortalità. Di certo ed a margine di un tale rituale, l’apparire improvviso dell’agognato oro, partendo da quello che ai non iniziati doveva sembrare un liquido mistico e insensato, bastava a giustificare la larga fama di chi praticava l’alchimia.
Ciò che importa a noi, venali uomini moderni, resta ad ogni modo quella preziosa polverina, da filtrare verso la fusione con un crogiolo, anch’esso rigorosamente fatto in casa. Finché in un pentolino, con sferragliante soddisfazione, non si palesino le gocce gravide di un senso arcano di trionfo. Sarebbe lecito chiedersi, a questo punto, se davvero ne sia valsa la pena. Sono abbastanza le sostanze chimiche e gli apparati da impiegare, per non parlare degli “scarti” informatici sacrificati, da giustificare l’attribuzione esclusiva di queste mansioni ad istituti deputati, che ammortizzino i costi nelle grandi quantità. E in effetti, non è che una singola pepita faccia molto per risolvere la crisi finanziaria. Ma dico, vuoi mettere? Le cose fatte con le proprie mani sono sempre genuine all’occhio ed al palato. Hanno tutto un altro sapore.