Porte di metallo che oscillano nel vento, strane deviazioni vanno oltre i marciapiedi del sottopassaggio. Cosa viva oltre le soglie meno percorribili della città…Quali tesori albergano nascosti dietro i limiti del nostro sguardo? Esiste, sotto il vasto svincolo automobilistico del Dupont Circle, centro storico di una delle capitali più riconoscibili al mondo, un vasto tunnel sotterraneo concepito originariamente per il trasporto pubblico, occupante uno spazio complessivo di 22 Km quadrati. Costruito negli anni ’40 è ben presto abbandonato, dopo appena una decade di sferraglianti percorrenze. Da allora incredibilmente, impossibilmente: del tutto vuoto. Neanche l’alito di un tram. Lì risuonano, con fare roboante, soltanto le scarpe dei più coraggiosi, coloro che vorrebbero trarne un’opera d’arte, un parco o un ristorante. “Qualsiasi cosa, purché ritorni ad avere un valido significato!” Parola del collettivo no-profit Dupont Underground guidato dal visionario Julian Hunt, che ha recentemente istituito una raccolta di finanziamenti su Fundable, a seguito di un permesso ricevuto dall’amministrazione cittadina. Proprio lì.
L’urbe simbolo di una nazione, il Distretto di Columbia candido e disseminato di grandiosi monumenti in marmo, il vasto viale del National Mall, dominato dalla cima dell’obelisco edificato in onore del suo rinomato nonché omonimo fondatore. Se Roma è la città dei sette colli, la fiera Washington D.C. ne vanta soprattutto uno eppure grandemente significativo, quel rilievo che i mandriani del fiume Potomac chiamavano alquanto prosaicamente la collina di Jenkins. Dal nome del suo scopritore…Esploratore? Ma che oggi, tutti quanti definiscono piuttosto “Capitol Hill”. Perché qui sorge fin dal 1793 lo svettante edificio dell’architetto-per-passione William Thornton, un tempio neoclassico della politica ispirato al Louvre francese e al nostro antico Pantheon, dove l’asino (simbolo dei democratici) si scontrerà con l’elefante (simbolo dei repubblicani) fino all’istituzione di una nuova forma di governo, oppure chi lo sa. Ma una cosa, invece, è certa: la testa di un paese, specie quando rilevante quanto questo, deve essere protetta attentamente da ogni sorta d’urto o immeritevole compromissione. Così è questo luogo, in tutto il mondo occidentale delle capitali, la fortezza per intramontabile eccellenza, dove tutto è calibrato e ben subordinato, artificiale nelle procedure, attentamente controllato dalla vista di elicotteri e precisi sorveglianti. Non ha mura, Washington, in quanto nasce in tempi in cui i cannoni erano già troppo devastanti (e ne pagò lo scotto, durante la guerra del 1812!) Ma in compenso è la sua stessa forma, costruita sulla base del progetto originario della commissione urbanistica facente capo a Pierre Charles L’Enfant, a offrire validi approcci alla difendibilità. Chiaramente, non è possibile definire questo insediamento di ormai oltre 600.000 anime come una “città artificiale” almeno non in misura superiore a quanto sia possibile farlo con qualunque sua analoga di ogni parte del mondo. Perché nonostante le apparenze, il senso dell’aggregazione dell’umana non è mai del tutto organico, come l’espandersi dei microbi o della vegetazione. Esiste il fattore della razionalità. Eppure questa specifica città di Washington, edificata nella sua forma primigenia sotto la severa supervisione di un presidente e generale (capo dell’esercito una volta, capo fino alla fine del mandato) prevedeva una spaziosa griglia, priva d’ostruzioni o baraccopoli di sorta – questione tutt’altro che scontata verso la fine del XVIII – e soprattutto di edifici che non misurassero mai oltre i 6,1 metri della larghezza della strada adiacente.
A tal punto si era giunti, nel controllo delle circostanze architettoniche, dopo la pessima esperienza dell’ammutinamento della guardia nazionale non pagata di Filadelfia, che aveva portato a spostare qui la capitale, tra le giurisdizioni congiunte dei due stati schiavisti della Virginia e del Maryland, considerati sorveglianti più efficaci.
Se uno spillo cade a Washington, secondo l’opinione comune, sono i servizi segreti a udirlo per primi, raccoglierlo e portarlo in qualche stanza bene occultata, per fargli domande sul perché punga in un modo tanto virulento. È veleno, quello? E il filo da cucito, dove l’hai lasciato? Ed in effetti utilizzare il termine “catacombe” in un contesto simile, può sollevare non pochi interrogativi. Risulta difficile immaginare, in un contesto quasi contemporaneo come tale agglomerato, una situazione analoga a quella dell’antico centro dell’Imperium, dove i paleo-cristiani usavano nascondersi al di sotto della percezione collettiva e del summum dorsus delle strade, l’antenato dell’odierno asfalto. Ma consideriamo questo: col trascorrere degli anni, che poi diventano le Ere, ben poco resta a valida testimonianza del perché uno spazio sia stato ricavato dalla terra sotterranea. E se pure la significanza storica e il valore archeologico del suo contenuto varia in modo estremamente significativo, soprattutto sulla base dell’antichità, un antro misterioso resta soprattutto quello. Impossibile da definire. Scrigno potenziale d’inverecondi e alquanto Dragoni, ai quali, da che mondo e mondo, non si può negare il Dungeon, l’equivalenza in lingua inglese della stessa cosa, frutto di un’attenta pianificazione. Oppure un semplice incidente, inspiegabile fin dai posteri immediatamente successivi.
Per ogni labirinto, anche se di un tipo come questi, spazioso e chiaro nella forma e nelle direzioni, occorre un valido e coraggioso Teseo. O per usare appellativi che più ci appartengono, una sorta di collaborazione tra Dante e Virgilio, che assieme si occupino di divulgare la mera e semplice esistenza di simili luoghi, sconosciuti quanto significativi. Procedura che in questo caso trova un ottimo espletamento nella serie Unusual Spaces del giornalista americano Raymond Schillinger, già blogger dell’HuffPost, oggi soprattutto produttore per la compagnia di publishers new media dei PBS Digital Studios. Sono stati realizzati, fino ad oggi, esattamente quattro episodi (di cui quello d’apertura, rilasciato agli inizi di Febbraio, è il più recente) dei quali un considerevole 50% è dedicato alla città della Casa Bianca, sede operativa dell’autore e assai probabilmente della sua intera redazione. Per ciascuno, come modus operandi, si è preoccupato di trovare un qualche tipo di artista o appassionato, puntuale conoscitore delle grotte urbane da lui scelte, affinché l’esperienza della visita non restasse solo il frutto di un’infruttuosa e semplice curiosità.
Ciò che ne risulta offre uno sguardo affascinante sulle pratiche civili del consorzio umano. Che ci ricorda il modo in cui, non importa quanto si pianifichi e distingua l’utile dal superfluo, persino nel campo estremamente ben studiato delle infrastrutture, i tempi cambiano e con essi i presupposti di utilizzo. Non chiamatela dannata disorganizzazione.
Il futuro possibile di Washington e anche la precedente capitale Filadelfia, riscritto come i trascorsi dell’antica Roma: un mondo differente in cui un intera comunità, stavolta possibilmente non perseguitata, possa fiorire e addirittura prosperare, ben lontana dallo sguardo inquisitivo delle autorità. Un’utopia che resterà difficilmente realizzabile, in questi anni in qui la naturale diffidenza umana si è incontrata con il controllo assoluto, la precisione offerta dalle macchine e dall’opera degli archivisti.
Considerate, ad esempio, come una delle due estremità tunnel sotterraneo del Dupont Circle si trovi ad appena un paio di Km dalla facciata posteriore della Casa Bianca, sacello inviolabile del grande padre nazionale. E chi mai andrebbe a bere vino, come proposto dall’appassionato tutore dei silos del McMillian, fatto fermentare tra i detriti di un sabbioso sotterraneo pre-bellico? Simili luoghi tanto lungamente abbandonati, superata la naturale curva del tempo, hanno maturato una tendenza a rimanere tali. Finché, superata l’ipotesi dei pochi individui e delle loro associazioni sognatrici, la collettività non decida che ne ha un rinnovato bisogno, tangibile e pressante, iscritto sopra i documenti attentamente autenticati. Anche questa è la democrazia, come direbbe Washington. Il personaggio, non lo stato. O la città?