Per gustare il ramen del demonio

Hell Ramen

Un cucchiaio più pesante di un macigno, due bacchette come pali della luce. Un vulcanico cratere fatto di ceramica, deposto sopra il tavolo del variopinto ristorante. Là dietro, se ancora avessimo la forza di girarci, scorgeremmo la parete fotografica con volti che ci guardano felici. Sarebbero costoro, il gruppo dei prescelti dal fato, gli eroi che hanno superato l’ardua prova. I sopravvissuti del Jigoku Ramen (piccantezza indescrivibile, gloria insuperabile). Penetra un refolo di vento, il gracidare della rana che trafigge il fresco ambiente conviviale. Beato l’animale! Batrace che non ha voglia di punirsi, per il gusto del momento successivo. Sudore ormai sgorga copioso dalla fronte; il piatto sembra un mistico portale, verso dimensioni sconosciute e ultramondane. Sparisce, giosamente, l’ultimo degli spaghetti. Ciò che resta è solo il liquido rosso-diavolo della mostruosa zuppa, il fuoco ultimo della creazione. E chi avrà mai il coraggio di…Berlo?
Se c’è un leit-motiv ricorrente nella voglia di creare giapponese, almeno per il modo in cui ci è dato di comprenderla attraverso le moderne forme letterarie d’intrattenimento, questo è certamente il tema dell’incontro. La preponderanza delle pagine di brevi romanzi, innumerevoli puntate di serie animate, volumi su volumi di pluri-premiati manga, sono spesi nel narrare l’avventura del viaggio di un gruppo di personaggi, divisi dalle circostanze, che per pura coincidenza si ritrovano l’un con l’altro, in genere poco prima di un confronto o una battaglia col destino. Sarà forse per l’effetto storico della Tokaido, strada di epoca Tokugawa (1600–1868) che congiungeva l’ancestrale Kyoto con la rinata capitale Edo, Tokyo del futuro carico di aspettative. Un singolo sentiero a far da arteria principale dello Honshu, isola maggiore di Nippon, ove certamente tanti abili guerrieri, dignitari e daimyō con castelli giù nella provincia si finivano per incrociare e darsi il passo, quando necessario. Oppure chi può dirlo, sarà una questione dalle origini più spirituali: dalla credenza spiccatamente buddhista secondo cui nell’attraversamento dell’eterno ciclo del Saṃsāra, tra una reincarnazione e l’altra, esisterebbero dei gruppi (nakama) di persone che una sorta di Provvidenza fa restare unite, attraverso i secoli, i millenni e molte vite differenti, finché non sopraggiunga l’illuminazione democratica di tutti quanti, sempre assieme addirittura in quello. Del resto il karma, un concetto tutt’altro imponderabile, può essere riscosso facilmente da un vecchio nemico, se non oggi, quando il tuo corpo naviga lungo la riva di quel proverbiale fiume che è la storia. La quale indesiderabile circostanza, a quanto pare, può essere allontanata con un paradosso. Ma ci vuole coraggio, per assaggiare il nettare della mortalità…

Bontà, realtà. Cibo per descrivere le ragioni di un contesto: esiste veramente, a questo mondo, un metodo migliore di capire un popolo, che conoscerlo con le papille gustative? Ed è davvero il sushi, piatto che venne importato e modificato dalle tradizioni provenienti dal distante delta del Mekong, una bussola fedele per l’esplorazione del pensiero giapponese? R’amen, come dicono i pastafariani (fratelli di una strana religione) ciò che serve è una gran ciotola, con dentro la gustosa zuppa, nata grossomodo verso gli anni ’50 dello scorso secolo. Basata sull’essenza quei tagliolini che altro non sarebbero in effetti, che farina di grano, sale ed acqua minerale. Se non fosse per l’incontro, con il senso e il gusto di duemila e cento cose – diverse come le pronunce di un carattere ideografico, eppure costanti, nel senso e il ritmo della risultanza ben tracciata sulla carta o la ricetta. Gli ingredienti che danno il senso e il ritmo di questo piatto simbolo della vita comune, tutt’altro che costoso, inaccessibile o segreto, variano con la regione geografica, esattamente come il paesaggio che si osserva camminando sulla Tokaido, o visionando le relative ed arcinote stampe xilografiche in quadricromia. Carne, verdure, pesce, fagioli azuki, miso (i semi della soia gialla), curiosi ornamenti spiraleggianti fatti in pasta di surimi (che danno il nome ad altrettanti ninja beneamati) e chi più ne ha, ne risucchi rumorosamente il brodo, come del resto si usa fare all’altro capo dell’Estremo continente. Ma cosa succederebbe, dopo aver esplorato ogni angolo di quel paese, se iniziassimo a spostarci lungo l’asse verticale? Verso i sotterranei dell’esplorazione dantesca oppur nei cieli posti in alto, di quell’estasi divina…Come fatto dall’eroico Ecoecoazarashi2 (nome probabilmente di fantasia) chef del ristorante Ippatsuya, sito nell’odierna Edo, pardon- Tokyo tecnologica, frontiera delle aspettative culinarie.

Hell Ramen 2
Anche se il protagonista del video di apertura non è riuscito a consumare la zuppa del suo ramen livello 4, le sue doti guerriere sono tutt’altro che indifferenti. Eccolo alle prese con il precedente livello 3, che riuscì a trangugiare senza grosse esitazioni.

Il ramen infernale in questione prende le origini dalla ricetta dello Hakata Nagahama, una versione già particolarmente impegnativa del piatto in questione. Questa particolare variante della cara zuppa mista giapponese trae il grosso del suo sapore da un apporto di Char siu, il maiale cotto al barbecue della tradizione cantonese, riconoscibile per l’alto contenuto di grasso e il presentarsi come una serie di fette sovrapposte. Ad esso si aggiungono, oltre agli immancabili spaghetti, una di quelle spettacolari cipolle nipponiche, simili a porri plutoniani, e un po’ di tsukudoni, ovvero i caratteristici funghi che si dice abbiano la forma di un orecchio. Niente variopinto narutomaki spiraleggiante, in questo caso (non siamo mica bambini!) Ma in compenso un alto contenuto di…Spezie.
Ora, le etichette dei barattoli in questione non vengono in effetti mai mostrati, ma si intuisce facilmente dal colore diavolesco delle polveri, nonché dalla descrizione situazionale, che siamo di fronte alla “Cosa più piccante ad est del Messico” in cui praticamente non si potrà percepire altro sapore, che quello tremendo sulla cima della scala di Scoville, lo strumento di misurazione tellurica del peperoncino. Alcuni suggeriscono si tratti in parte di yuzukoshō, il condimento giapponese a base di pepe nero, o della pasta rosseggiante del gochujang, la polvere particolarmente amata da ogni cuoco coreano. Altri si limitano a dire: metterci del “vero” peperoncino non sarebbe stato meglio? Almeno, avresti mantenuto anche gli altri sapori. Ciò che conta, tuttavia, è la reazione dell’assaggiatore: sconvolta e sconvolgente.

Ramen Challenge
All’Orochon Ramen, nella Little Tokyo di San Francisco, è possibile assaggiare qualcosa di simile al Jigoku Ramen di Ecoecoazarashi2. Ecco per l’appunto dimostrata l’esperienza, in un video di Halloween ad opera di gbot1999. La voce narrante si configura come una strana commistione tra Fantozzi e Fu Manchu.

Si trattava, in fondo, di un terribile livello 4, shi 四 numero infausto per eccellenza, perché pronunciato in modo analogo a shi-nu 死ぬ (morire) Si scopre così, guardando video su Internet, che il ramen infernale ha una serie di livelli e che ciascuno di essi corrisponde ad un diverso girone. Sull’ordinamento degli stessi, ci sono diverse interpretazioni. Mentre il nostro chef giapponese, come già accennato, preferisce una numerazione crescente, in cui la cifra sale di pari passo con la difficoltà, esiste almeno un caso inverso, reso celebre dalla Tv statunitense. Risale giusto a qualche tempo fa l’epica puntata del reality Man Vs Food, in cui l’attore Adam Richman si recava all’Orochon Ramen di San Francisco, ristorante famoso per la piccantezza del suo ramen. Il quale, per inciso, prevedeva ben sette gradazioni, in cui l’ultima era la più facile da buttar giù, mentre il primo fuoco puro. E ancor peggio di quello, l’offerta prevedeva due “special” ancora più piccanti (cinture nere delle arti marziali per lo stomaco). Proprio su quelli si reggeva la leggenda: perché esattamente come all’Ippatsuya, pare che tutti coloro a cui riesca di consumarne una porzione entro un tempo limite ben definito, si siano ritrovati affissi in effige sopra la parete retrostante della gloria. Si dice che delle migliaia di persone che ci provano ogni mese, solamente 200, fin dall’apertura del locale, siano riusciti nell’ardua disfida.
Ramen calante, luna crescente. O forse, d’altro canto, la questione andrebbe intesa in questo modo: lo stato naturale della zuppa alla giapponese è una cortese indigeribilità. Matematicamente, questa viene espressa con lo zero, il numero perfetto. Se si aumenta il grado di piccantezza verso la ricerca del paradiso, aumenta un numero ordinale, che è per l’appunto quello usato in U.S.A. Ma sconfinando nelle regioni dell’inferno del Jigoku Ramen dell’Ippatsuya, la cifra invece aumenta verso la vertigine. In un modo esponenziale, samurai.

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