Tra i più interessanti e innovativi fenomeni sociali provenienti dall’Estremo Oriente, il Mukbang è quella prassi, tipicamente coreana, secondo cui un ragazzo o una ragazza si collegano al sito di streaming video AfreecaTV (Any Free Broadcasting) per vestire i panni di un tipo diverso di supereroe. È frutto di un bisogno estremamente nuovo di quel paese antico, oggi notoriamente dedito al culto della bellezza e della celebrità. Nonché un qualcosa che, seppure ci appare così lontano, in qualche misura ed un tempo medio potrebbe trovare un senso pure qui da noi: mangiare senza nessun tipo di preoccupazioni. Bruciare metaforicamente i libri sulle diete, accettando le temute conseguenze, concedersi un momento, due ore, sei giornate per fagocitare quantità spropositate di cibarie, dangmyeon (spaghettini) con chapchae (verdure fritte) e sam gyup sal (carne di maiale) seppia ricoperta di cho gochujjang (la pasta di fagioli rossi) e poi kimchi, naturalmente, quel cavolo fermentato e reso piccante grazie ad ogni sorta di spezie che è un vero e proprio simbolo della nazione, mangiato a fette, a dadini, nella zuppa, con il pane o direttamente dal barattolo, con bacchette o mani rigorosamente ricoperte di cellophane, per non sporcarsi. Ma la fame non riconosce alcun tipo di confine e così negli ultimi tempi, visto il diffondersi di questo strano passatempo, i suoi praticanti hanno cominciato a nutrirsi pubblicamente anche con piatti tipici di altre culture, ivi incluso l’iper-calorico cibo dei fast-food in stile americano, pollo fritto e tutto il resto. Ed è un vero tripudio dell’ingollamento, la festa della masticazione, da accompagnarsi rigorosamente con bevande di tipo variabile, ma sempre anch’esse in grado di contribuire al contenuto energetico del lauto pasto. Mentre la gente guarda, e immagina. Come sarebbe, un giorno, dimenticata l’ansia di apparire, poter mangiare come questi spregiudicati divoratori, tanto dediti alla piacevole autodistruzione quanto, giovani, attraenti e ragionevolmente magri, nonostante tutto…
Nell’ultimo documentario della serie Munchies, prodotto collaterale dell’articolata testata Vice, l’ex-modella inglese Charlet Duboc si dedica all’ardua missione di presentarci questo strano mondo, attraverso la lente di una critica oggettiva e spassionata. Si comincia, come tanto spesso capita, presso un mercato: quello del cibo di Kuan Jung, “vecchio quanto la Corea” un simbolo ancestrale di Seul, ove abbondano le bancarelle, i forni mobili, coloro che forniscono talvolta gli stessi praticanti del Mukbang. L’inizio è strutturato come una sorta di contro-dichiarazione d’intenti, in cui la corrispondente ci mostra i sensi e i ritmi della tradizione, per poi spostarsi, repentinamente, verso l’ambito della nuova selvaggia gioventù. Quindi inizia il bello: per il tramite di un lavoro di ricerca e interpretariato certamente non indifferente, facciamo visita ad alcuni dei maggiori BJ (Broadcast Jockeys) del momento, ciascuno mostrato durante un momento differente della sua giornata. BJ SOF, 30enne, nel suo appartamento che assomiglia a una cabina di regia. Colui che vorrebbe, un giorno, aprire il proprio ristorante, applicando le tecniche imparate in questi anni. Wang Joo, la ragazza che viene convinta, in qualche modo, a organizzare una cena con i capi del suo vasto fan club da trasmettere in diretta, la quale si risolve in un bizzarro convivio silenzioso, in cui tutti chattano col cellulare invece di guardarsi in volto, dopo il primo scambio di regali. E infine Biryong l’entertainer consumato, che trasmette da una tenda in un parcheggio in mezzo al freddo e al gelo, indossando su grande richiesta l’uniforme di quando faceva il cuoco per l’esercito, durante il servizio militare.
Ciò che emerge, gradualmente, da un simile reportage, è che il Mukbang sia un fenomeno “grande” in grado di monopolizzare le ore d’intrattenimento per un’intera classe di spettatori. Viene facilmente palesata quell’immagine che per certi versi ci appartiene: i giovani in età scolare, stanchi di guardare la televisione, che scelgono piuttosto forme d’intrattenimento maggiormente partecipative. E per di più scalabili, visto come non sia affatto insolito, in quel contesto nazionale, ritrovare persone che seguono il proprio show preferito ad ogni ora del giorno e della notte, grazie all’uso dell’irrinunciabile smartphone. AfreecaTV, il portale web da sempre associato a questa pratica, prevede un sistema di donazioni integrate da parte degli spettatori, non dissimile da quello in uso presso la venture americana di streaming autogestito Twitch (dedicata ai videogiochi) o quella più problematica ed interessata, dei tanti portali dedicati all’esibizionismo. Per farvi un’idea: la più celebre e rinomata dei BJ, l’ormai quasi leggendaria Diva (alias Park Soo Yeon) era arrivata a guadagnare fino all’equivalente di 9000 dollari al mese, prima di ritirarsi dalla scena per motivi tutt’ora largamente incerti. La cifra è tanto più impressionante quando si pensa che l’unità della singola donazione è il “palloncino” una valuta virtuale del valore di appena 0.10 centesimi a pezzo.
A questo punto, sarà chiaro: ciascuno degli intervistati nel documentario della Duboc, lungi dall’essere un giovinastro scriteriato, è un esperto di marketing sul web che ha saputo trasformare, con notevole colpo di mano, un trend emergente in una nuova forma di lavoro estremamente redditizio.
Lo stesso Biryong, 26enne, incontrato mentre tenta di smaltire in palestra l’alto contenuto calorico del suo ultimo glorioso exploit è pronto ad ammetterlo con un sorriso: “Se non fosse per il Mukbang, oggi sarei un commesso del supermercato.” Eppure: “Ho scoperto di avere questo talento, continuerò ad usarlo fino a quando non potrò metter su famiglia. Poi inizierò un nuovo show assieme a mio figlio!” Gestire un canale di questo tipo, ad ogni modo, non deve essere facile. Il pubblico del web è tra i più volatili in assoluto, e ciò senza calcolare la facilità con cui chiunque, da un momento all’altro, potrebbe trasformarsi in un temuto concorrente. Se ne parla, brevemente, nel documentario: del modo in cui, nel momento in cui la corrispondente straniera è apparsa sul canale della seconda intervistata, avesse ricevuto più di un invito a comparire sugli stream dei mangiatori rivali, pena la perdita di una corposa fonte di visibilità.
Il Mukbang o Mokbang, che la Duboc traduce superficialmente e alquanto suggestivamente con il termine food porn (una parafrasi tutt’altro che inesatta) è in realtà una contrazione, stando al Sookmyung Times, della dicitura meramente descrittiva Muk-Neun-Bang-Song, ovvero “Trasmissione su Internet di un pasto”. L’attività parrebbe ad ogni modo giovarsi di un qualche tipo di fattore feticista, variabilmente intuibile da certi dettagli di contesto. La risposta evasiva ricevuta sulla questione del sesso degli spettatori in relazione a quello del/della praticante (ma no dai, ti pare!) Il modo in cui durante la cena dei fan i partecipanti sono tutti uomini di varie età, tra cui alcuni osservano la loro eroina con un fare vagamente appassionato e tentacolare. O almeno, così sembra, dalla distanza di tanti chilometri di continenti. Chi può dire, veramente, perché i coreani guardano il Mukbang?
Forse si tratta, come dicono alcuni, di un modo per trasformare il cibo della tradizione (sinonimo di affetto familiare) in una forma di potente affermazione dell’individuo, finalmente libero dai presupposti della società dell’apparenza, sebbene per il tramite di tanti perfetti sconosciuti. Oppure è semplicemente una nuova iterazione dell’ormai classica televisione fatta dagli chef famosi, troppo lontana dai gusti e dai bisogni delle generazioni emergenti. È certamente innegabile, a corollario di tante astratte teorie, ribadire quanto appare chiaro all’evidenza: si tratta fondamentalmente di un diverso tipo di reality show. Particolarmente utile, quando ci si sente soli.