“E spingiamo, spingiamo innanzi il vecchio carro, spingiamo!” Coro: una goccia di rum non ci farebbe affatto male, oh, una goccia del sangue di Nelson*; “Ma spingiamo, gente, ancora e ancora, quel dannato vecchio carro […]” E poi di nuovo, in un crescendo di entusiasmo ed enfasi selvaggia. Del resto amici miei! Una volta passato il Corno, ci potremo infine riposare. Quindi, forza e coraggio: tirate fuori il vostro perno dal cabestano, il grande argano di babordo, e poi piantatelo di nuovo dentro al foro successivo, tutti assieme, al risuonare del tonante richiamo. Finché il ferro là gettato nel profondo della baia non risorga umido, ruvido e lucente. Allora via, verso l’orizzonte. Vele nel vento, oltre gli scogli tempestosi… Non è mai davvero chiaro, quanti dei traguardi storici di una nazione siano il frutto di un’attenta pianificazione e quanti invece, faticosamente attraversati, siano il frutto di una sequenza più prosaica degli eventi. Lo statista che dirige le mansioni di un’intera macchina governativa, il generale di stato maggiore, il presidente del convegno che traduce le giornate in decisioni. E così tutti coloro, trascinati dal bisogno, che in qualche maniera rendono palesi le delibere del giorno. Da cui deriva tutto il resto: l’opificio come l’operosa fattoria, il muoversi delle brigate. E infine poi, la nave dei commerci d’oltreoceaeno, quel micro nel macro, eppure cosmo innegabilmente ripiegato su se stesso quanto l’infinito, soprattutto perché autosufficiente, oggi estremamente, e ancor di più una volta. Estremamente britannico, nella celebrata tradizione. Anglosassone in senso più vasto. Senza radio, cellulare, senza procedure o rigidi regolamenti: quando l’unico modo per mettere il modo il meccanismo era davvero crederci e far parte. Di un qualcosa di volubile, eppure niente affatto raro. Perché funzionale, quindi replicato. E conseguentemente, bello: il canto degli stevedores (gli stivatori). Che fu brevemente citato in ambito letterario per la prima nel 1549, all’interno del componimento propagandistico del The Complaynt of Scotland (Il lamento della Scozia) scritto contro Enrico VIII, che all’epoca si era prefissato di agevolare il matrimonio politico tra Mary Stuart la cattolica e il proprio figlio Edoardo, durante la guerra fallimentare che passò alla storia come il rough wooing (brutale corteggiamento). E già a quei tempi alcune delle fregate e le altre navi cariche di spade e cavalieri, a quanto ci è dato di comprendere dal testo, disponevano di un certo tipo di canora predisposizione, utile a cadenzare l’intenzione ed il funzionamento dello sforzo collettivo. Ma il vero fiorire di questa pratica, di accompagnar l’impegno di marina con le note musicali, si ebbe a partire solo successivamente, dal tardo diciottesimo secolo, in corrispondenza con il fiorire dei commerci (anche, ahimé, di esseri pensanti) e del colonialismo di stampo ed intento imperialista.
Risalgono a quest’epoca, in effetti, i molti curiosi resoconti degli esperti viaggiatori venuti a contatto con la cultura esportata, assieme alle braccia ed al sudore, dai vasti paesi e popoli del continente antico. Si trattava di una strana abitudine dei popoli africani; tutti quegli schiavi, dalle piantagioni nei neonati Stati Uniti ai rematori delle ultime galee, a coloro che immettevano il carbone in orride fornaci e così via, che non lavoravano in silenzio. Niente affatto. Bensì accompagnavano, ciascun singolo e sudato gesto, con le note di uno spiritual, ovvero un canto a cappella fatto per trarre un sincero beneficio psichico dal battere delle stoviglie, dal colpo ripetuto della zappa e/o del martello, perché nonostante l’avversità crudele del destino qualcuno, lassù, li amava. A margine di tale procedura, viene spesso citata l’opinione al tempo diffusa e convenzionalmente associata ad un resoconto anonimo dell’isola di Martinica (nelle Antille francesi) secondo cui: “I neri non riescono a svolgere un compito senza accompagnarsi con il canto. [E infatti] dispongono di una sterminata serie di componimenti, ciascuno designato per una specifica mansione.” Per la mentalità dei naviganti di allora, naturalmente, era assai difficile mettersi sullo stesso piano dei loro malcapitati servitori. Eppure, ciò che sapeva dimostrarsi utile, tanto spesso ritrovava significative applicazioni.
Sempre il candido cotone, inevitabilmente, responsabile di tanta cruda dedizione. Una di quelle sostanze, frutto del consorzio naturale, che in qualche maniera furono in grado di dettare il senso, il senno e il nesso delle epoche, il flusso del denaro degli umani. E proprio il “vecchio carro” di cui ci cantava quell’eccezionale David Coffin in occasione del Maritime Folk Festival di Portsmouth del 2010, assai probabilmente era in origine da interpretare in senso letterale, come un sistema con due assi e quattro ruote, usato per portare il carico fino alla portata dei portuali.
Non è niente affatto difficile da immaginare: lo sguardo interessato degli stivatori su commissione, generalmente inglesi e scozzesi, mentre i loro colleghi di terra trasportavano il carico prezioso, sulle note della loro ultima moda musicale. Seguiva la pratica del cosiddetto cotton-screwing, che consisteva nell’inserimento a pressione del carico mediante l’impiego di una vite a torchio. Si trattava un mestiere molto ben pagato, nonché estremamente faticoso. Che ben si adattava, dunque, ad esportare un tale metodo di distrazione della mente, mentre il corpo si piegava nel concludere la sua missione.
Questa sorta di canzoni furono definite, almeno a partire dal 1867, con il termine d’etimologia incerta di shanty o sea chanty, forse derivante dal francese chanter, e impiegato notoriamente nel racconto autobiografico di G. E. Clark, Seven Years of a Sailor’s Life. Fu lui a descrivere per iscritto lo svolgersi di un canto di accompagnamento simile, durante il sollevamento dell’ancora in un viaggio da Bombay a New York, effettuato sulle note delle canzoni popolari Paddy on the Railway e We’re Homeward Bound. Il dispiegarsi della scena fu memorabile e davvero significativo: nello shanty, normalmente, si può osservare una sorta di botta e risposta tra il conduttore e gli altri marinai, non dissimile, in linea di principio, da quella stessa relazione che esiste tra un capitano e tutti i suoi seguaci. Eppure nonostante questo, la voce principale del pezzo non è investita un grado formalmente superiore e partecipava anch’essa dello sforzo collettivo. Un membro della ciurma che sapesse intrattenere adeguatamente i suoi colleghi con una vasta selezione di canzoni, spesso improvvisate, veniva considerato difficilmente rimpiazzabile, assai prezioso per le sue capacità di aggregazione. Un aspetto interessante era l’esistenza di generi di shanty ben distinti, creati sulla base di specifiche mansioni. Entrambe le canzoni qui mostrate erano ritenute opportune per quando si dovesse “tirare” un qualcosa, vista la ricorrenza di un lungo ritornello (il momento dello sforzo) e la natura ricorsiva. Esistevano dei versi standard come “Ehi, si torna a casa” oppure “Sei mai stato a —” usati per espandere il componimento, quando ritenuto necessario. Ma c’erano dei canti usati invece per la “spinta” meno intermittenti ed altri estremamente ritmati e rapidi, per quando si dovesse tirare a bordo un lungo tratto di corda. Esistevano canzoni per ammainare le vele, ed altre per compiti estremamente specifici, rari e significativi, come issare l’albero maestro. Da quell’epoca e per un tempo mediamente lungo, grosso modo fino all’ampia diffusione del motore a vapore, gli Oceani del mondo risuonarono del gusto e del bisogno di produrre l’arte musicale.
Oggi, naturalmente, i canti di mare sono più che altro una curiosità. Resi celebri dall’antologia del 1961 Shanties from the Seven Seas (Stan Hurgill) e successivamente da un certo tipo di cinematografia, indissolubilmente legata al contesto piratesco dei Caraibi (benché fossero tutt’altro che esclusivi di quei luoghi) vengono attentamente preservati negli ambienti di categoria, come alcuni equipaggi dei pescherecci anglosassoni o le associazioni culturali statunitensi. Ma forse la maggiore opportunità di rinascita è offerta dal mondo della più moderna tecnologia digitale e di Internet, che si è dimostrata utile nel divulgare una simile arte perduta anche tra le nuove generazioni. Vedi la componente maggiormente memorabile di Assassin’s Creed Black Flag.
*Lord Horatio Nelson, primo visconte Nelson e primo duca di Bronte che per l’appunto, secondo la leggenda, fu temporaneamente “sepolto” in una botte di rum, dopo essere stato colpito da un cecchino francese durante la battaglia di Trafalgar.