Nella favola numero 173 di Esopo, un taglialegna lascia accidentalmente cadere la sua ascia dentro a un fiume e poiché tale strumento, visto lo stato critico delle sue finanze, era per lui sia indispensabile che impossibile da rimpiazzare, si siede, piange lacrime tardive e si dispera. Ma il dio Hermes (che i romani chiamavano Mercurio, oppure meno formalmente il Messaggero) casualmente si trovava a fare il bagno in quelle acque, e vista l’imprevista occorrenza di una greve e rugginosa lama presso il ruvido fondale, decise di mettere alla prova quel distratto abitante del consorzio naturale. “Ascoltami, umano” Uno può facilmente immaginarsi la mano perfetta che emerge dall’acqua con un manico ben stretto tra le dita, mentre una voce roboante piega gli alberi nella foresta: “Sei tu che hai perso questa…Cosa?” A riflettersi sui flutti turbinanti, un’ascia interamente fatta d’oro. Secondo la tradizione, se a quel punto il taglialegna avesse detto di si, non avrebbe ricevuto nulla e sarebbe, anzi, stato punito dall’ira del dio, infastidito dall’interruzione delle sue abluzioni. Ma poiché costui l’uomo, che era pur sempre l’immagine dell’onestà o forse della furbizia, restituì un cenno chiaramente negativo, la mano divina ritornò ad immergersi sott’acqua. Per tornare poco dopo in superficie: “E che mi dici di quest’ascia, invece, d’argento?” La luce del sole, amplificata dal filo splendido del mirabile implemento, tendeva a riflettersi in 380 direzioni: “Nossignore, niente affatto, non è questa, la mia.” Così, d’un tratto, egli aveva superato l’imprevista prova. Il kami dei greci risalì la riva e ancora grondante, un gran sorriso sopra il volto, porse al taglialegna la sua vera ascia, assieme alle altre due.
Stranamente, o forse niente affatto, questa favola di un altro mondo è particolarmente cara ai giapponesi. Si potrebbe quasi pensare ingenuamente, non conoscendo l’originale e approcciandosi tramite il punto di vista moderno, che l’avessero inventata loro. Nella versione che ricompare, lievemente modificata, in innumerevoli videogiochi, manga ed anime, al posto di Hermes viene messa “la grande dea” un expy, o ersatz che dir si voglia, meno spiccatamente sacrale dell’ormai arcinota Amaterasu, simbolo vivente dell’astro solare, personificazione shintoista del ruolo degli uomini nell’universo. Mentre al posto dell’ascia, mille alternative: c’è talvolta uno specchio, c’è una pietra, c’è la spada, l’arco oppure addirittura il cellulare. Qualsiasi oggetto caro al suo proprietario, che riavendolo indietro grazie all’intercessione sovrannaturale, non solo riesce a dimostrare la sua onestà. Ma scopre, assieme a tutti noi, che la ricchezza può manifestarsi in modi e tempi inaspettati. Un concetto estremamente utile a coloro che applicano la propria sapienza alla pratica raffinata di allevare la carpa koi. Argento, oro e Platinum Ogon!
Avvenne infatti, a quanto pare nei remoti tempi della dinastia cinese dei Song, che un’imperatrice non meglio definita (è una vicenda quasi leggendaria) si fosse appassionata nel collezionare un certo tipo di particolari pesciolini, rigorosamente appartenenti alla famiglia dei Ciprinidi, piccoli nuotatori per una bizzarra e inspiegabile mutazione biologica tendevano ad una tonalità di scaglie fra l’arancione e il giallastro. La quale, con un notevole balzo di fantasia, poteva essere definito color-oro. Seguendo immediatamente l’esempio della sovrana (vera e propria trend-setter dei suoi tempi) i frequentatori della corte iniziarono ad acquistare grandi quantità di quella stessa specie di animali, ma poiché il giallo era da tempo immemore un simbolo della sovranità, i loro pesciolini tendevano prudentemente al vermiglio, grazie ad un sapiente incrocio tra due specie di carpa: la cruciana e la prussiana. Così nacque, nel giro di appena qualche generazione, il sempiterno pesce rosso. Ma le cose belle, nei secoli remoti, hanno pur sempre teso a crescere in maniera incontrollata. E non può esserci un’ascia d’oro, senza un’altra d’argento, platino e perché no. A macchie rosse e bianche, con qualche vistosa macula d’inchiostro sumi sopra il dorso fatto a scaglie…
“Ti ho chiamato, amico mio, perché non capita spesso che un pesce come questo giunga fino qui in America.” A parlare è Shawn McHenry, proprietario dell’allevamento Mystic Koi in California, così intervistato, assieme alla ragione del suo orgoglio, da un rappresentante del popolare canale ThePondDigger, tra i maggiori contractors specializzati nell’implementazione di stagni per le carpe in Occidente. I due, in stato di assoluta deferenza, si avvicinano alla vasca che è un po’ il tempio di questa incredibile creatura. Il proprietario, immergendo delicatamente la vistosa e grande ciotola bluastra (un colore scelto molto attentamente per i suoi meriti di contrasto) cattura il dio-titano del fiume e ce lo mostra sotto l’occhio della telecamera: è pressoché perfetto. Un mostro di oltre 80 cm, appartenente quindi al genere cosiddetto dei Jumbo Koi, che tuttavia presenta le caratteristiche di un giovane virgulto del giardino acquatico, lucido ed immacolato.
Anzi, diversamente maculato: ben tre diversi “culmini” (lui li chiama, con saccente sghignazzamento dei commentatori, climax) di colori differenti. Le consuete macchie bianche e rosse della carpa domestica giapponese, oltre ad una vistosa spruzzata d’inchiostro nero, così vistosa da sembrare artificiale. I pesci con questo tipo specifico di livrea, fatti nascere per la prima volta nel 1914 dall’allevatore Gonzo Hiroi, vengono definiti Taishō Sanshoku (大正三色) dal nome ufficiale dell’Imperatore di quell’epoca Yoshihito, oppure semplicemente Sanke, sfruttando la lettura alternativa degli ultimi due caratteri 三色. Rispetto alla loro controparte cinese, le koi sono una creazione piuttosto recente, attestata soltanto a partire dal diciottesimo secolo e spesso notevolmente più imponenti, perché incrociate a partire dal Cyprinus carpio o carpa comune, un pesce imparentato ma diverso.
La carpa di McHenry, che sta per essere venduta ad un facoltoso quanto misterioso cliente, ha una storia piuttosto particolare. L’attuale proprietario racconta di quando, diversi anni fa, si trovava a far da giudice al Nagaoka Nogiosai, un concorso di bellezza ittico in Giappone tenuto presso l’omonima città della prefettura di Niigata, grossomodo nell’esatto centro dello Honshu, l’isola maggiore del paese. Qui si procedette come di consueto, eliminando per gradi successivi i pesci ritenuti meno meritòri, fino al sopraggiungere di una situazione finale di stallo: due veri e propri dragoni vermigli, entrambi impossibili da criticare, l’uno appartenente al genere tradizionale delle Kohaku (koi soltanto bianchi e rossi) l’altro, eccolo qui. Essenzialmente, una delle più grandi e splendide Sanke a memoria d’uomo. Per inciso, in origine esistevano soltanto tre tipi di carpe koi riconosciute, il cui terzo era la Shōwa Sanshoku, nera e bianca a macchie rosse, inventata nel 1927 e spesso quasi indistinguibile da quella qui documentata – ma non fa parte della storia. Tutte e tre assieme le razze, se così possono essere definite, rientravano nel genere collettivo e arbitrariamente definito delle Gosanke, vincitrici indiscusse di una significativa percentuale degli show di settore, nonostante si stia tentando ormai da lungo tempo di differenziare le tipologie riconosciute, con pesci monocromatici, con pinne corte o lunghe, con o senza scaglie…Le varianti sono letteralmente infinite.
Ad ogni modo, si era lì, ormai stanchi dopo un lungo giorno di discussioni, per decidere quale fosse la migliore carpa tra due quasi uguali. Quando a un tratto uno dei giudici, che guarda caso era anche l’allevatore della Kohaku e della Sanke, disse: “Ascoltate. Comunque vada, oggi porterò a casa il premio e quindi… Che ne dite di chiudere in tempo per la cena? Secondo me il pesce superiore è questo.” Così vinse, l’altro che noi qui non abbiamo occasione di vedere. Il che fu una notevole fortuna, per McHenry, che racconta di essere in questo modo riuscito ad accaparrarsi il suo pur meraviglioso koi per un prezzo assai inferiore il che, ci garantisce, andrà anche a vantaggio del suo cliente finale. 60.000 dollari può sembrare una bella cifra. Ma considerate pure questo: una carpa koi, secondo fonti autorevoli, può tranquillamente superare i 50 di età e non è tutt’ora noto quale sia il tetto massimo della sua sopravvivenza, salvo l’intromissione di un qualche pericoloso airone americano di passaggio (questi pesci sono molto vulnerabili ai predatori, persino dentro a uno stagno da giardino). Esiste almeno un caso, purtroppo non documentato, in cui una di tali creature sarebbe stata tramandata di padre in figlio per ben 225 anni. Il suo nome era Hanako e il colore, a quanto pare, un rosso vivo e intenso.
Perché tra le tante cose che si possono gettare in un fiume, asce o tutto il resto probabilmente la migliore è pur sempre lo sguardo. E la divinità tanto spesso non proviene da concetti mistici ed incomprensibili, ma dalla pura e semplice bellezza. Che talvolta va nutrita e coltivata per generazioni. Fino a che non porta soddisfazione senza fine, ricchezza e perché no, anche all’illuminazione spirituale.