Dragones, yeti, mostri a profusione. Cosa alberga nelle zone in cui i geografi non giunsero a documentare? C’era sempre quella mappa riccamente decorata, frutto della stampa o dell’opera diretta di un artista, in cui lo spazio estremo rimaneva vuoto ma soltanto di reali informazioni. Perché ricco delle ipotesi più trascendenti: creature grandi come isole, serpenti lunghi quanto i continenti. Zigzaganti e semi-visibili, eternamente riprodotti sulla carta, nella pittura e in ogni altro possibile veicolo della creatività. Persino, oibò, lo zucchero! Che puoi scolpire, attrezzare, usare per tracciare una figura uscita dalla mente. Almeno oggi, che ce l’hai. E conosci quel segreto…
Chi siamo? Scintille momentanee di presenza, come 糖人 – Táng rén, le “persone” di zucchero, che quest’uomo crea a partire da una pregevole sostanza, per le strade ed i turisti di Xian. E da dove proveniamo? Per certi e rilevanti versi da un lontano luogo. Quell’epigrafe scritta a grandi lettere sul marmo da uno scalpellino avventuroso, pronto ad arruolarsi nell’odierno Epiro per poter testimoniare “Alessandro Magno giunse fino a qui” e basterebbe poter ritornare indietro, e spostare quel macigno, quell’imponente lapide o obelisco, di qualche centinaio oppur migliaio di chilometri, per modificare in modo estremamente significativo quella che fu la vicenda dell’intero periodo dell’era Classica e conseguentemente, della Cina coéva. La spedizione del Macedone verso il grande Oriente, che fu un viaggio di conquista e di scoperta le cui proporzioni effettive possono davvero essere giudicate solamente a posteriori, fu talmente epocale e rivoluzionaria, condusse all’incontro ed alla mescolanza di tali culture contrapposte, che è facile dimenticare alcune delle conseguenze meno altisonanti, eppure duttili e durature, di una simile catena d’improbabili eventi. Fra queste, l’iniziativa di un gruppo di soldati ormai prossimi alla ribellione, stanchi per le dure campagne contro l’esercito del re Porus del Punjab, che giunti presso il fiume Indo ebbero a conoscere una strana pratica del popolo locale. Un’intera casta di laboriosi agricoltori, che per vivere dovevano curare la coltivazione della Sharkara, la cosiddetta canna-del-miele, un vegetale il quale, una volta raccolto, veniva subito schiacciato, fino a ridurlo in una fine polvere biancastra. Quindi filtrato, affinché la rimanenza liquida della sua linfa, deliziosamente dolce, potesse essere usata come mistica bevanda. Era il 320 a.C, ma è stato accertato, attraverso lo studio dei testi e delle testimonianze locali, che la pratica fosse nota fin d’impero indiano dei Gupta, risalente a 50 anni prima. Fatto sta che pochi anni dopo, lasciato il fondamentale segno della sua venuta, Alessandro dovette arrendersi all’evidenza del bisogno, girare il suo cavallo bianco di 180 gradi e intraprendere il pesante viaggio fino a casa. Ma alcuni dei suoi, a quanto pare, si impossessarono in gran segreto di un ingente carico dei semi e delle piante dello Sharkara, che loro chiamavano ζακχαρον-sakcharon, da cui il termine moderno “saccarosio” ed invero, perché no: lo Zucchero in se stesso, tale imprescindibile, essenziale fondamento dei sapori. Il demone della carie si era liberato.
Né la cultura grecizzata dell’Ellenismo, né quella successiva del vasto Impero Romano, percorsero mai con i vessilli e le armi l’intera Via della Seta, per giungere fino alla fonte di tanti vantaggiosi ed ottimi commerci, la remota e misteriosa Terra di Mezzo – 中國 (Zhōngguó). Ma lo zucchero, partendo direttamente dall’India, ovviamente si. Seguendo dunque un percorso cronologico, piuttosto che geografico, possiamo con certezza affermare che la coltivazione della canna a zucchero in Cina fosse nota fin dall’ottavo secolo avanti Cristo, come ampiamente narrato dai testi manoscritti di quell’epoca, gelosamente custoditi secondo l’etica e il rispetto di coloro che furono i Primi (grazie, Confucio!) E consumato, con estremo gusto. E celebrato dai poeti. Ed impiegato in una serie di pratiche artistiche assai particolari, come quella della soffiatura attenta d’animali mitologici, non per la consumazione, bensì a scopo puramente estetico e decorativo.
La pratica del Táng rén, così ben documentata nel video della blogger viaggiatrice Carol Ann Quibell, ha una genesi largamente incerta, come spesso avviene per le arti del popolo, e si attesta fin dall’antica dinastia dei Song (960-1279 d.C.) alcuni la chiamano in lingua, per l’analogia con una forma d’arte teatrale molto successiva, l’Opera di Zucchero. Ha del resto alcuni elementi affini a quelli di uno spettacolo, ed è stata concepita per nutrire l’anima, piuttosto che addolcire le papille gustative, alla maniera di tante altre pratiche pseudo-gastronomiche di quei paesi. E ti credo! Chi se la sarebbe messa in bocca, una creazione simile, piena d’aria e assai probabilmente di saliva…
Ancora oggi, i praticanti di questa antica e curiosa arte sono ovunque: dalle strade di Shanghai all’ombra del vertiginoso monte Hua, dalle stazioni di scambio presso le merlature di antiche fortificazioni contro i Mongoli fino agli hutong di Pechino, gli antichi e stretti vicoli che sono il simbolo della città. Ovunque, insomma, ci sia qualcuno disposto ad osservare, registrare e soprattutto ricompensare l’opera dell’artigiano. Nonché, possibilmente, schiere di bambini. La tradizione da sempre infatti vuole, a margine dello spettacolo, che ciascun piccolo committente provveda alla messa in movimento di una sorta di ruota della fortuna, con figure degli animali dello zodiaco e altre creature più o meno fantasiose, finalizzata alla determinazione di quale sia la scultura che dovrà ricevere dall’artista dello zucchero, spesso in cambio di poche monete o banconote. Qualche volta, nei periodi più economicamente complicati, si usava scambiare l’oggetto con beni di prima necessità, come vestiti o scarpe usate, dentifricio. Oppure rottami metallici da riciclare, con conseguente sostentamento, tutt’altro che agiato, della controparte vagabonda. Non è certo facile immaginare la vita di questi uomini e donne, dediti all’arte nella sua forma meno duratura, l’ineffabile creazione di un qualcosa di piacevole allo sguardo, quanto impermanente e presto ricoperto dalla polvere (lo zucchero rimane pur sempre appiccicoso, anche dopo la cottura). Ma è indubbio che il loro riallacciarsi ad una tradizione folkloristica tanto eminente abbia donato, nei secoli, un ricco significato a un tale gesto. Dare forma ai draghi! E qualche volta, addirittura, leccarli almeno un po’.
In Occidente, nel frattempo, non esiste nulla di davvero comparabile alle due pratiche cinesi del Táng rén e del Táng huà, tranne forse la trovata assolutamente contemporanea, attestata presso alcuni rinomati ristoranti americani, di costruire vistosi centrotavola con lastre o forme interconnesse di zucchero caramellato. Tali imponenti creazioni, tuttavia, prendono l’origine in genere da stampi realizzati appositamente per lo scopo, e benché il montaggio richieda una notevole manualità, non hanno nulla di quel senso spontaneo e quasi clownesco degli artisti di strada cinesi, quasi affini ai figuranti che attorcigliano palloncini per mestiere.
Ciò, naturalmente, non significa che l’arte dello zucchero sia sconosciuta nell’Europa e negli Stati Uniti, anzi! Semplicemente, ha preso un’altra strada. All’apice del suo impero commerciale, fu prevalentemente Venezia ad importare dai paesi arabi questa sostanza preziosissima ed indeperibile della canna-del-miele, che nella sua forma vegetale di partenza, per naturale predisposizione, riusciva a crescere e prosperare unicamente nei climi umidi e tropicali. Lo zucchero, dunque, rimase un bene di lusso fino al diciottesimo secolo, quando l’introduzione di specifici cultivàr (elaborazioni artificialmente selezionate) della pianta attecchirono nella maggior parte delle colonie spagnole e portoghesi, diffondendosi nella sua forma odierna sulle tavole e nei cucchiaini dell’intero mondo occidentale. La gioia tanto semplice di lasciar colare il caramello fuori dalla pentola dandogli l’aspetto del draghetto da donare o vendere, così diffusa in Oriente, venne saltata a piedi pari, verso una lavorazione più complessa e sofisticata. La fabbricazione moderna di caramelle artigianali prevede infatti la creazione di un impasto detto pulling-sugar (zucchero da “tirare”) possibilmente arricchito di coloranti o altri sapori, che prima di raffreddarsi viene attentamente manipolato, più e più volte ripiegato, fino all’ottenimento della forma desiderata. Quindi fatto a fette, più o meno grandi, a secondo della golosità della clientela del momento. Pare quasi, talvolta, di assistere alla fabbricazione dell’acciaio di Damasco. Oppure addirittura (strane coincidenze) a quella di una katana giapponese! Ma con gradevoli strisce bianche e rosse, perché anche l’occhio vuole la sua parte di dolcezza. E non tutti i grandi mostri serpeggianti devono essere trafitti così, per puro sport.