Il primo giorno neanche mi avvicino. Osservo da oltre la dolce collina, il mio cavallo saldamente assicurato a un cactus della tiepida Arizona, la grande tribù dei Gunnison che s’industria nei suoi riti quotidiani. È chiaro che se davvero voglio stabilire un punto di contatto con il mondo sotterraneo di cui parlava Nonna Papera nelle sue storie, occorre procedere per gradi. Avere la pazienza di essere accettati mano a mano. Sono bestie queste, in fondo, alquanto differenti da noi altri viaggiatori della prateria. È presto chiaro che l’individualismo per loro non esiste. Sempre assieme, si agitano, discutono sui territori di ciascuno e qualche volta litigano, tendono a rincorrersi. Da un piccolo monte di terra con un buco in mezzo, come l’emicupola di un carro armato, sporge l’anziano del villaggio. È tanto grosso che ci passa appena, eppure tutti lo rispettano. Egli si guarda attorno attento, le zampette anteriori saldamente assicurate al bordo della sua fortezza, il manto marroncino che si agita nella leggera brezza del mattino. Basta un cenno di quel fiero condottiero per dirimere le liti, silenziare le proteste dei suoi giovani più scapestrati. Gli altri cani capi delle rispettive famiglie, di tanto in tanto, si recano sotto l’ombra della sua imponenza e parlano, gesticolano, assumono posizioni significative per lunghi e pesantissimi minuti. Quindi, apparentemente soddisfatti, spariscono di nuovo nelle buche. Verso la metà del pomeriggio, con i raggi del Sole che già ghermiscono le cime delle Gila Mountains, consumo la carne del coniglio ucciso ieri. Temporaneamente soddisfatto, leggo un libro ed entro nel mio sacco a pelo.
Mi sveglia il grido di un condor di passaggio, anzi no; ciò che gli fa seguito nella colonia contrapposta, giù dentro la valle delle pietre. Per la prima memorabile volta, già da oltre 100 metri di distanza, riesco a udire il suono della loro voce. È subito chiaro perché li abbiano chiamati come il tipico animale delle case: i roditori, contrariamente all’apparenza, stanno DAVVERO abbaiando. Ma paragonare un tale verso alle semplici lamentazioni di chihuahua, mi pare, sarebbe una grossolana inesattezza. Il loro verso collettivo pare una sirena che si agita sulle frequenze del sensibile, poi scende di tono, sale ancora e ancora e ancòra. Finché alla fine, spunta fuori il grande Toro Seduto alto 42 cm, gli occhi neri strabuzzati, le zampe rivolte verso il cielo. Getta il suo capo all’indietro e lancia un grido sconvolgente mentre YIIIP-YIIIP, riecheggiano i suoi simili dalle diverse buche. L’allarme è stato diffuso, il messaggio è chiaro. Il rapace, senza neanche voltare l’affilato becco verso la cacofonia sul suolo, vola via per la sua strada.
Le grandi scimmie. Le balene, chiaramente. Qualche delfino tra i più splendidi e educati: l’antica concezione, per cui il linguaggio sarebbe la maggiore invenzione, la più inimitabile medaglia appuntata sull’uniforme dell’umanità, è da tempo stata superata. Gli animali comunicano tra di loro, e non soltanto grazie ai gesti, alle movenze, ai feromoni. C’è una naturale tendenza a sopravvivere, comune ad ogni forma di vita, che conduce verso la ricerca continua di rimedi e scappatoie. Non sempre, la semplice selezione del più forte è ciò che guida il passo dell’evoluzione. Perché il più debole, piuttosto spesso, può vantare alternative qualità. Una caratteristica della prateria temperata, oltre al clima secco e la conseguente rarità di piogge, è la quasi totale assenza di piante ad alto fusto. Il che dona, ai suoi abitanti anche più piccolini, una visione molto estesa dell’ambiente circostante, dei suoi pericoli, dei predatori. E un cane, soprattutto se stanziale, per sopravvivere non può pensare solamente alla sua pelle. Deve osservare le regole dell’opportuna solidarietà.
È una questione veramente appassionante. Uno di quei fatti poco conosciuti che dapprima, nel momento in cui ne vieni a conoscenza, sembrano cambiare il mondo, assieme a tutto quello che c’è dentro: si, i cani della prateria parlano. Si avvisano a vicenda, nel bisogno. Il che non vuol dire che semplicemente facciano rumore. Come dimostrato dalle ricerche del Dr. “Con” Slobodchikoff, professore di Biologia all’università di Falstaff, c’è tutta una storia dietro alle loro variegate vocalizzazioni. Che inizia, grossomodo, così: lui, coi suoi studenti, che piazza un registratore in prossimità di una colonia di cani della prateria di Gunnison (una delle cinque specie esistenti) e aspetta, un tempo mediamente lungo, la venuta dei diversi possibili predatori: il coyote, il serpente, il rapace, anche il cane domestico e poi l’uomo. Ciascun linguaggio sconosciuto, del resto, per essere acquisito a partire dallo zero assoluto, richiede una chiave d’accesso, un punto fisico in comune. A tal proposito lui, nel video a corredo della teoria, fa il paragone con la Stele di Rosetta – il che è soltanto parzialmente appropriato. Qui non c’era neanche, ad assisterlo, una tabula con traduzioni tolemaiche di una epigrafe dei faraoni, perché i piccoli mammiferi, ahimé non sanno incidere la pietra! Non riescono a impugnare il tipico pennino! Non potrebbero neanche battere sulla tastiera! Tutto quello che comunicano, lo affidano alla pura vocalizzazione. All’incedere del vento che lievemente lo trasporta, indifferentemente, verso chi era di dovere. E con loro a tutti gli altri scienziati, curiosi e senza peli.
Una volta catturato su memoria digitale un numero sufficiente di espressioni, si è passati alla fase di contro-verifica. In assenza assoluta di pericoli (zero veri predatori) si è riprodotto in rapida sequenza ciascun verso, per osservare quindi la reazione dei graziosi animaletti. Che era, eccezionalmente, differente in ciascun caso: per il coyote tutti i giovani rientravano nelle buche, mentre nel caso del serpente, un roditore adulto restava fuori a far la guardia per ciascuna famiglia nella speranza di riuscire a spaventarlo. Per il cane domestico, tutti i membri della comunità restavano perfettamente immobili ed attenti, pronti a reagire in base al corso degli eventi. Qualcosa di simile per l’uomo. Nel caso del rapace, invece, si nascondevano unicamente alcuni esemplari, quelli informati, per l’appunto, di essere nella zona oggetto della sua imminente o presunta picchiata.
Stabilito tale vocabolario, Slobodchikoff è passato alla parte veramente interessante. Disponevano, i suoi beniamini, di una vera capacità descrittiva? Di una grammatica e un sistema di fonemi? Ecco, in effetti, con estrema sorpresa di noi tutti, si. Una delle prove maggiormente significative si è avuta facendo avanzare, a distanza potenzialmente pericolosa, una studente in situazioni sempre uguali ma prima con la maglietta verde, quindi gialla e così via. I cani della prateria, che sono dicromatici (ovvero non vedono il rosso ma percepiscono le altre tonalità) lanciavano un verso differente per ciascun caso, concordando perfettamente le “parole” usate tra i diversi gruppi. Si è scoperto quindi che il grido che lanciavano non era solamente diverso per tipo di pericolo, ma giungeva addirittura a connotarlo delle sue specifiche ulteriori. Come ad esempio il colore, le dimensioni, la forma. Ciò anche per gli animali. Chiaramente, l’attacco di un terrier non è davvero paragonabile a quello di un pastore tedesco. Né nei metodi, né nella pericolosità.
Ma la parte più sorprendente, a mio avviso, è venuta quando i rilevanti appartenenti alla famiglia degli Sciuridae (sono, in effetti, scoiattoli di terra) sono stati messi a contatto con un presunto pericolo che non poteva in alcun modo essergli noto. Con mezzi qui non meglio definiti, Slobodchikoff & co. hanno infatti fatto avvicinare, a ciascuna colonia, delle sagome geometriche con un triangolo, un cerchio, un quadrato. Ciascuna di essere stimolava, negli spaventati animaletti, sempre lo stesso identico grido. Quasi come se la loro società, spinta dal terrore inusitato, avesse sviluppato nel giro di pochi secondi un pensiero affine al Platonismo delle forme, e si fosse sobbarcata l’arduo compito di esprimerlo in parole. È davvero l’intelligenza, in fondo, che genera il linguaggio? Oppure viceversa? E chi può dire a cosa ammonti il pensiero collettivo di un’intera colonia di roditori, se questi ultimi sono davvero ben coesi, alleati nei reciproci obiettivi. Forse, addirittura, può portare alla filosofia.
Questo ed altro è ormai soltanto una nota a margine della memoria mentre, il cavallo ormai lontano e quasi dimenticato, mi avvicino di soppiatto alla colonia. Il Sole adesso è allo Zenith, il vento perfettamente immobile. Strisciando come un colubride, non getto ombre ne lascio una scia rivelatrice. Il grande capo sul suo piedistallo pare sonnecchiare, guarda pacatamente verso un’altra direzione. I suoi figli, e i figli dei suoi figli, mi corrono freneticamente attorno, parlottano distintamente nell’idioma della loro specie. Stranamente, sembravano aspettare un simile momento. Qualcuno viene ad annusarmi la fronte con la punta umida della sua presenza. Io mi distendo sulla schiena, apro le braccia verso il cielo. Nella speranza di capire.