Stasi e movimento due princìpi contrapposti ma questo non significa che senza l’uno, l’altro cessi di essere davvero rilevante (come avverrebbe per la luce e l’ombra, a voler sentire il fiato dei filosofi o dei pensatori). Prima di tutto, perché il primo è un’astrazione: non esiste nulla di immobile a questo mondo, in quanto il mondo stesso, con noi che ci viviamo, è frutto di un incontro tra le forze plurime del vento, del magma che ribolle, della gravità. Ma pure per il fatto che una cosa che comincia a muoversi, raramente poi si ferma, se non per l’apporto di una forte volontà. E qualche volta neanche in quel particolare caso! Ci sono esperienze che ti mettono su strada, con un pieno di benzina e le tue mani saldamente sul volante. A quel punto puoi cambiare marcia, rallentare, fare finta di distrarti. Ma mai davvero, fermarti. Ne dominare il senso e una passione, come quella, assoluta e totalizzante, di Guillaume Néry per il Mare. Nata, a quanto racconta con sentita enfasi, verso i 14 anni di età, tuffandosi per gioco con l’amico giù nei flutti della Costa Azzurra, in quel di Nizza la Marittima e l’antica. Osserva. L’acqua scura, limpida e profonda, azzurra e gelida che toglie il fiato; tanto meglio, dunque, scendere con già l’ossigeno di cui hai bisogno. Dentro al corpo, come facevano i predecessori del remoto brodo primordiale.
Il merito aggiunto di questo straordinario atleta francese, che fu detentore nel 2011 del record di profondità d’immersione in apnea (-117 metri a Kalamata, in Grecia) è il saper cogliere il sublime senso di poesia. Quanti sportivi, persi in un mondo di numeri e di prestazioni, finiscono per trasformarsi in altrettante macchine del pragmatismo, tese al superamento delle aspettative come unica forma di soddisfazione…E quanti, dimenticata l’epoca dell’entusiasmo naturale, dedicano i propri giorni unicamente alla vittoria? Mentre non soltanto questo è quel costui, come si osserva dai suoi video più famosi, diffusi online come perfetta ambasceria della specialità. Di cui l’ultimo, già pubblicato da un paio di settimane, ce lo mostra mentre attende il suo momento, in mezzo al nulla. Siamo, stando alla descrizione in allegato, a Tiputa Rangiroa, nella Polinesia Francese, ma il bello è che al contempo siamo ovunque. Fra le nebbie di Avalon, oltre la nebulosa di Orione, sugli anelli di Saturno a galleggiare, come del resto suggerisce il titolo: OCEAN GRAVITY, che storia. Si, la logica. Che qualche volta trae in inganno: giacché pensando in termini abissali, come per l’appunto i pesci di quei luoghi, si potrebbe tendere a identificare il basso come direzione. Staremo pure sotto l’acqua a profusione, diremmo quindi eppure, metafore tralasciando, sarà questa pur sempre la stessa regione del sensibile, soggetta a forze comparabili di cosmica attrazione! Giusto. Una cosa è ritmo degli eventi, un’altra lo specifico contesto. Perché nulla è veramente mai, fermo. Tanto meno il mare e le sue imprescindibili correnti.
Ecco d’un tratto, dunque, che l’atleta prende vita nuovamente. Inizia a distendersi, si gira tutto attorno. L’unico punto di riferimento della scena, che guarda caso è il ruvido fondale, inizia allora a muoversi, senza l’ombra di una minima bracciata. Ciò che sembra per l’osservatore, ed in effetti solamente quello potrà fare (tanto è alieno tale luogo e tali le sue regole) è che una volta in piedi, la figura umana sia ad agire come la bolina di una vela. Infine sufficiente per raccogliere una spinta immane quanto dispersiva, quella delle masse d’acqua senza fine. Così inizia la caduta verso avanti, un’avventura senza fine. Mentre alcuni tra i commenti al video, ingenuamente o forse di proposito, pongono l’ovvia e inutile domanda: “Ma-come-faceva-a-respirare?!”
Sette minuti e 42 secondi. Questo il tempo che dichiarava in un’intervista di qualche tempo fa l’atleta, alla domanda tipica del relatore, probabilmente molto spesso ripetuta: “Si, ma quanto puoi DAVVERO tenere il fiato?” Una risposta frutto di anni di preparazione, allenamenti, studio e sforzi fisici notevoli. Probabilmente, ormai quella cifra lui l’avrà persino superata. C’è ben altro, nell’arte complessa dell’apnea, che imparare come intrappolare l’aria nei polmoni. Ciò che conta, veramente, è abituare l’organismo umano a funzionare comparabilmente bene senza emoglobina. Trasformare il sangue in qualche cosa di diverso, connotato ed anzi abilitato da pericolose qualità. Ipossia: l’assenza di ossigeno. Ipercapnia: l’eccedenza di anidride carbonica. Onde prepararsi a sopportarle, non è insolita la pratica del podismo all’asciutto, anch’esso in apnea, quando lo sforzo può interrompersi in qualsiasi momento. Ma tende a farlo sempre all’ultimo perché altrimenti, a cosa servirebbe? Sempre e comunque in corsa, verso Olimpiadi che forse, dopo tutto, non arriveranno mai…
Ci sono sport che si prestano naturalmente alla spettacolarizzazione. Che provengono direttamente, anzi, dal mondo dell’intrattenimento e del teatro. Come il nuoto sincronizzato, il pattinaggio e alcune forme di combattimento attentamente codificate. Altri, frutto dell’impegno di una squadra, stimolano il senso naturale dell’appartenenza, dando luogo all’estasi del tifo, che tutti unisce e genera (incidentalmente) grosse forme di guadagno. Mentre è certamente più difficile trovare, in un’impresa così frutto dello sforzo individuale come il freediving, tanto immota nella sua componente esteriore e addirittura Zen nelle apparenze, un approccio valido a coinvolgere le masse disinteressate. A meno di passare, come più volte ha fatto Néry, per la stretta via dell’arte.
Queste lunghe sequenze che realizza, generalmente con l’aiuto della fidanzata Julie Gautier (la sua assenza nell’ultima è un’anomalia) sono un’esplorazione estremamente rilevante delle trasformazioni, sia figurative che letterali, che può suscitare l’apnea nei sensi umani. Ad esempio il nostro già narrato exploit alla dolina di Dean, oppure questo più recente NARCOSE. Che è basato sul fenomeno della narcosi da nitrogeno, che consiste nella trasformazione di tale gas pur sempre presente nel nostro organismo, però metabolizzato al di sopra di un certo numero di bar di pressione, con l’effetto letterale di una droga. Raccontano addirittura, taluni tuffatori, di aver raggiunto i propri limiti di profondità, soltanto per subire ogni sorta di allucinazione, stato alterato di coscienza e una sublime forma d’euforia. E chissà se le scene rappresentate nel video, di lui che cade ritrovandosi tra mostri alieni, il matrimonio dei morti, il rapimento verso il cielo dei puri di spirito etc. etc. fossero soltanto limpide invenzioni o vere esperienze fatte dall’atleta, durante il superamento di una qualche record rilevante alla sua scelta di carriera. Di sicuro, l’intera esperienza restituisce un senso estremo di latente pericolosità.
E mistero. Esiste del resto quel termine psicoanalitico, affine a molti altri, della thalassophobia – la paura degli abissi. Di ritrovarsi a fluttuare in mezzo al nulla, fra le ombre millenarie, dove le creature viventi raggiungono maestose dimensioni. Per percepire, senza punti di riferimento, una leggera vibrazione. Seguita dalla sagoma mostruosa di qualcosa di dimenticato…O di un qualcuno, finalmente risvegliato?