Come una vela che si protende orgogliosa verso le propaggini della Nuova Guinea. La regione del Queensland, nell’estremo Nord-est della principale terra emersa d’Oceania, è un tripudio verdeggiante di sorprese. Ove prosperano, grazie al clima accogliente e la frequenza della pioggia che nutre la vita, numerose specie d’animali endemiche, nonché vegetali, senza pari sulla Terra. Il motivo di una tale diversificazione, assai probabilmente, va in parte ricercato nell’occasionale ciclo di totale annientamento, quasi una sorta di diluvio universale ricreato, alla stagione rilevante, dal soffiare senza posa degli oceani sconfinati. Così è la distruzione vivificatrice. Questa zona è tanto esposta all’aria salmastra del Pacifico da essersi trovata nel 2011, ad esempio, sul passaggio del ciclone Yasi, un evento atmosferico epocale in grado di ingoiare l’intero sistema ecologico della regione. A me gli alberi, coi loro nidi, trascinati dalla furia incessante e il soffio di quei venti. A me le tane dei pademelon, simili a piccoli canguri, ormai ricoperti dai detriti. Un turbinare di ferocia incontenibile, alla fine rischiarata da un timido ritorno della luce del Sole. E dopo? solamente la radura e il volo raro degli uccelli, o almeno di coloro, tra gli appartenenti a tale classe d’animale, che hanno avuto la furbizia e la prontezza di migrare. Il che si scopre, è sufficiente. Da un singolo seme, può tornare tutto quanto? Più o meno e gradualmente. Già sciami di gazze, pappagalli e corvi, nettarinidi e verdelli, ritornano dall’entroterra. Portando, nelle loro feci, un carico prezioso di rinnovamento. Ma la foresta non ricresce tutta allo stesso ritmo, né con comparabile entusiasmo. Ci sono erbe ed alberi ad alto fusto che richiedono generazioni. Ed altri, invece, rapidi e infestanti. Per mesi, settimane o addirittura anni, qui getteranno l’ombra sopratutto e solamente loro, gli alberi pungenti. Isolati in mezzo al nulla, perfettamente ben visibili da gran distanza. Il che davvero, è una fortuna.
“They call me.. Gympie-gympie.” Toccami e dovrai pentirtene davvero amaramente. Forse non al primo istante, magari nel giro di un secondo oppure due, ma per un tempo lungo. Settimane, mesi ed anni durante i quali, te lo garantisco, ti ricorderai di me. E forse pure dopo, in eterno… La vicenda evolutiva di questa famiglia vegetale, denominata con il termine scientifico Dendrocnide dal nome della sua tossina, si svolge per la sua interezza nelle foreste pluviali sub-tropicali dell’emisfero meridionale, in particolare australiane, ma anche delle Molucche e d’Indonesia. E non è chiaro come si sia giunti a questo punto di crudeltà per l’immisurabile passare degli eoni, ma il gruppo vegetale in questione si è trasformato, suo e nostro malgrado, in un ricettacolo di sofferenza senza eguali. Come se uno scienziato sociopatico, o un torturatore medievale, ricevuto il compito di concepire lo strumento più efficace sulla mente umana, avesse infuso l’erba di un supremo senso di malignità, l’intento di uccidere, se non il corpo umano, per lo meno la mente. Di un qualche malcapitato. Il che, si scopre, non è affatto raro.
Lo stato di grazia iniziale, dell’ordinato tavoliere con alberi e cespugli attentamente definiti, dura molto poco. Ben presto, fra le dozzine di specie vegetali che competono tra loro nell’ambiente ricreato della foresta, le innocenti foglioline penderanno giù da quella volta ombrosa, quasi impossibili da discernere nel Maelstrom verde oliva. Finché, per sbaglio…
Si ma quanto, esattamente, può far male la puntura di una di queste piante? Dipende, innanzi tutto, da quanto si è stati “fortunati”. Le specie maggiormente diffuse sono tre: la prima è il Dendrocnide photinophylla o albero-dalle-foglie-che-splendono. Un ragguardevole arbusto alto fino a 30 metri, riconoscibile per l’attraente effetto della luce sui sottili peli che ricoprono tutte le sue parti esposte all’aria, incluso quindi il fusto. Questa pianta è molto odiata dagli escursionisti e dagli amanti della natura, che camminando per simili luoghi ameni tendono ad urtarla con le spalle o la testa, riportando conseguenze fastidiose e qualche volta anche l’insorgere di sfoghi dolorosi. Sono costoro, essenzialmente, quelli a cui è ancora andata bene. C’è una pianta ancor più grande, la Dendrocnide excelsa, che può vantare tronchi di 6 metri di diametro, alti fino ai 40 abbondanti, la cui puntura può iniziare a definirsi seria. Questa specie, non particolarmente studiata (immaginate voi perché) è quella oggetto del video di apertura, realizzato con il commento della dottoressa Marina Hurley, fra le principali autorità sull’argomento. Che ci racconta, con fare divulgativo, dell’esperienza di entrare accidentalmente in contatto con uno di questi rami o foglie: sarebbe come, nelle sue parole “venire bruciati e ricevere dell’acido sulla ferita nello stesso tempo”. Dopo alcuni episodi, di cui uno particolarmente grave, la scienziata si è attrezzata a dovere ed ha scoperto che gli unici guanti abbastanza spessi per maneggiare un campione erano quelli per la saldatura.
I piccoli peli delle Dendrocnide a differenza di quelli dell’ortica comune, una volta che entrano in contatto con la pelle umana si staccano dalla pianta e restano conficcati, alla maniera del pungiglione di una vespa. Con una piccola differenza: sono migliaia e continuano a liberare il proprio veleno anche per mesi, o addirittura anni. Per alcune vittime, la zona colpita non è mai tornata allo stato precedente, restando estremamente sensibile al calore o allo sfregamento per tutto il resto della vita.
Ma l’esperienza peggiore, come generosamente dimostrato dal qui presente e coraggiosissimo inviato del National Geographic, giunge in sorte a chi dovesse toccare la versione più piccola dell’albero pungente australiano, ovvero il cespuglio, alto appena 22 cm, della Dendrocnide moroides, quella che il ricercatore Hugh Spencer ha coloritamente definito “l’ortica che ha preso steroidi”. Si tratta di una pianta talmente tossica e pericolosa che si consiglia a chi dovesse avvicinarsi d’indossare un respiratore. Basterebbe infatti l’inalazione di un singolo pelo trascinato via dal vento per iniziare a starnutire freneticamente, fino alla fuoriuscita di una variabile quantità di sangue giù dal naso. Tale, per dire, è l’entità del rischio. Del pericolo finale che si annida tra le fronde. I peli delle piante gympie gympie (il cui nome significa, nella lingua aborigena locale, semplicemente albero-che-punge) hanno una forma assai particolare: sono affilati e lunghi come un ago ipodermico, ma molto più sottili e in cima c’è come una sferetta delicatissima, il serbatoio in cui alberga quel veleno. Una volta entrata in contatto con un possibile nemico della pianta, quest’ultima si rompe, mentre l’intero costrutto viene spinto bene a fondo nell’organismo del malcapitato. Ciò che ne risulta è un vero supplizio. Esistono casi documentati di cani o cavalli che, toccati da questo araldo della perdizione vegetale, sono impazziti e caduti giù da una rupe o dentro un fiume, quasi con l’intento di…Suicidarsi? Il dolore è sufficiente a far perdere la ragione, persino tra gli umani. Ernie Rider, un militare australiano che restò colpito nel 1967 sulle mani, il volto e il petto, racconta di aver provato una sensazione simile a quella di una coppia di mani giganti che tentassero di stritolarlo. Subito portato in ospedale, restò immobile per settimane e poi dimesso, ancora sofferente. Fino a due anni dall’evento, racconta, una semplice doccia fredda bastava a far ritornare la tremenda sofferenza. Ma di certo la storia più terribile resta quella raccontata all’Australian Geographic dal veterano della seconda guerra mondiale Cyril Bromley, colpito anche lui dalla pianta nel 1994. Durante la sua lunga degenza, nel corso della quale fu tentato ogni sorta di rimedio inefficace, egli raccontò di un suo superiore dei tempi della guerra che, avendo usato maldestramente una pianta di gympie gympie come carta igienica, finì per togliersi la vita con un colpo di pistola. Tutt’ora, sarebbe forse preferibile considerare un tale racconto atroce come frutto momentaneo del delirio.
Il composto chimico alla base dell’effetto di queste piante resta largamente ignoto, al di là della presenza della moroidina, una molecola neurotossica con un composto anomalo ed instabile di triptofano ed istidina. Tale sostanza ha la dote di restare venefica anche molti anni dopo la morte e l’essiccazione della pianta, tanto da aver sortito i suoi nefasti effetti anche su persone che sfogliavano, pacatamente, un campionario d’erbe all’interno di una qualche istituzione di ricerca.
Ma l’aspetto forse più sorprendente resta questo: basta osservare una foglia di gympie gympie per vederla percorsa da innumerevoli insetti e ricoperta dai morsi dei bruchi. I suoi piccoli frutti rossi, anch’essi graziati dai peli ricoperti di veleno, vengono liberalmente fagocitati da ogni sorta di volatile, mentre i pademelon, piccoli marsupiali salterini di cui sopra, brucano tranquillamente tutto attorno ai tronchi derelitti. Generazioni immemori, col corso dei millenni, hanno reso del tutto immuni tali semplici esseri dalla furia della pianta dell’inferno sulla Terra. Ed al contatto con l’albero non provano più nulla, se non un delicato languorino dell’ora di merenda. Fuoco e fiamme, un’insalata. Per celebrare l’ultimo primato sulla scienza degli umani.
per quanto questa pianta possa essere infernale nel difendersi..non sarà mai malvagia come gli uomini che si uccidono a vicenda e uccidono gli animali con qualsiasi scusa..
se la natura decidesse di farecrescere questa pianta nei posti che vengono disboscati dall uomo.. l uomo ne starebbe l ontano..quindi questo sistema difensivo naturale avrebbe ancor più senso..