Quest’uomo è Lars Andersen. Lars Andersen può lanciare lanciare dieci strali prima che uno solo tocchi terra, come sapeva fare solo il capo Hiawatha, fondatore della confederazione degli Irochesi. Ma lui è Lars Andersen. Che quindi salta verso il ramo alto dentro il quale la penultima di quelle frecce si era conficcata, per raccoglierla e scagliarla anch’essa contro l’obiettivo. Tutto, nel compiersi di un solo fluido movimento. Robin Hood pensava di essere il migliore degli arcieri. Quell’allegro ladro si sbagliava e come lui lo svelto Guglielmo Tell. Perché non conoscevano, Lars Andersen. L’artista e studioso danese, che da qualche anno spara dardi a tutte le distanze, con vari metodi e nelle più diverse situazioni, verso l’obiettivo di veder segnato il proprio nome negli annali de…Lo sport? Il cinema? La guerra riportata nello stato primigénio? Difficile capirlo, per lo meno basandosi soltanto sull’ultimo trailer, narrato e montato come un segmento pseudo-catastrofista dell’History Channel, quel caravanserraglio digitalizzato in cui spesso l’archeologia sperimentale diventa l’approssimazione di un’orribile battaglia, con tanto di sangue finto e manichini tagliuzzati. Qui, fortunato sia il buon gusto, ci si limita a bersagli bidimensionali, pur se semoventi. Però! Non manca invece nulla del resto, neanche l’irrinunciabile voce robotica e spietata, qui fornita dall’amico Claus Raasted, doverosamente citato nei brevi, ma intensi titoli di coda con l’appellativo di SPEAK. E non poteva essere altrimenti. Questo susseguirsi di scene tende a far perdere il fiato e la concentrazione (addirittura, il supporto tecnico riceve la firma vagamente sconcertante di Incompe-tech). Pare quasi di assistere, grazie a validi artifici situazionali ma sopratutto per l’innegabile capacità di lui, ai primi timidi passi di un supereroe.
È innegabile che lo spunto di partenza sia piuttosto originale: vengono mostrati, nel giro di 10 secondi, alcuni geroglifici egizi non meglio definiti, un bassorilievo assiro di “almeno 5.000 anni fa” e la copertina di un famoso testo del tardo periodo medievale, ad opera dell’arciere-filosofo Nabih Amin Faris: Il libro sull’eccellenza dell’arco e delle frecce (a cui spesso ci si riferisce con il telegrafico titolo in inglese di Arab Archery) ciascuno conduttivo ad una particolare visione della tecnica di combattimento a distanza più antica, nonché culturalmente nobile, nella storia di ciascuna civiltà. Ovvero: quantità, prima che precisione. Il che parte da un presupposto molto valido, a pensarci. Sui campi di battaglia del contesto pre-moderno, perché a tali dichiaratamente lui s’ispira e non certo a Orione o Diana, ciò che contava maggiormente non sarebbe mai stato: la percentuale dei colpi portati a segno rispetto a quelli scagliati, oppure l’avvicinarsi con la punta acuminata ad un pallino rosso ed arbitrario; bensì fermare, il nemico. Ad ogni costo e con qualsiasi metodo a disposizione.
Nel concepire il combattimento all’arma bianca, il senso comune dispone di strumenti maggiormente validi alla comprensione: immaginiamo un moderno sportivo armato di fioretto, pur se agile e veloce, contro un vichingo in cotta di maglia che brandisce in una mano l’imponente brando della scuola runica di ULFBERHT, due spanne d’ampiezza ed una lama lunga a doppio taglio, nell’altra l’ampio scudo ligneo simbolo della categoria. Benché possano sorgere dubbi sull’effettivo vincitore del confronto, ciò anche in funzione dell’abilità dei contendenti, è indubbio che la vecchia maniera presenti alcuni vantaggi particolarmente significativi. Perché, dunque, non pensiamo in questi termini dell’arco? Chi ha detto, come vuole lo stereotipo, che i più leggendari praticanti dei secoli trascorsi fossero paragonabili, per precisione, ai campioni olimpionici di oggi, per di più senza l’uso di mirini, corde nanotecnologiche o vistosi contrappesi…Di doti, assai probabilmente, ne avevano parecchie; ma erano diverse!
Così giunse un giorno, a cavallo di un metaforico destriero, costui, il prescelto, il solo e l’unico erede del defunto Kublai Khan? Qualcosa del genere, indubbiamente, vista la sicurezza innegabile con cui si pone al pubblico nei suoi testi di presentazione. Stando al più recente video, che ricorda vagamente l’approccio di uno stuntman, sul pianeta Terra al momento non esiste un arciere più veloce di Lars Andersen. Si accenna, anzi, al modo in cui lui avesse praticato brevemente questa disciplina sportiva in alcuni campionati, prima di annoiarsi e lasciar perdere: nessuno raggiungeva la metà dei suoi successi e dunque, perché faticare? Se pure qualcuno, nei commenti e nelle discussioni a margine, tende a dubitare, io direi invece che il solo fatto che lui possa affermare una simile cosa, senza il timore di essere smentito seduta stante, è dimostrativo della stessa tendenza alla snaturazione della pratica originaria, che proprio costui lamenta nell’arceria contemporanea. I segni sarebbero chiari: ad esempio la predilezione attuale, resa estremamente popolare dal cinema di Hollywood, a tendere l’arco con la freccia sul suo lato sinistro. Un’approccio che deriverebbe dal desiderio di dare uno spazio maggiore al proprio occhio dominante, piuttosto che favorire la rapidità del gesto di estrazione della freccia successiva come, stando alle opere archeologiche su citate, molto chiaramente si faceva “nell’Età dell’Oro”. Ma l’aspirante rinnovatore della Danimarca va ben oltre, superando addirittura la necessità di fare riferimento di continuo a quella fastidiosa e lentissima faretra. Tra le sue capacità maggiormente scenografiche, figura infatti quella di tenere non una, non due, ma fino a quattro frecce nella stessa mano, mentre tende e rilascia in rapida sequenza, riuscendo addirittura a infiocinare una serie di bersagli in movimento. In un passato video, l’impresa gli riusciva sporgendosi dalla sella posteriore di una moto, effettuando quello che probabilmente fu la prima manifestazione contemporanea di certe tattiche belliche dei Parti e dei Persiani.
Proprio così, Lars Andersen. Il tuo arco è una luce che potrebbe illuminare strade nuove, eppure vecchie nello stesso tempo. All’epoca precedente la nascita di Nabih Amin Faris, cose microscopiche potevano causare la caduta di culture millenarie, da un lato all’altro dell’Eurasia sconfinata. Erano questi i batteri, i virus portatori di malanni senza cura. La peste nera, nata in qualche stazione di scambio sulla Via della Seta, giunse in Europa grazie all’opera disinteressata dei pericolosi roditori, che imperversarono per lunghe e tragiche generazioni. Come questa, molte altre gravi epidemie. Finché alla fine: eureka, la penicillina. Difficile sopravvalutare l’importanza di una semplice muffa, sviluppatasi per caso nella coltura di Alexander Fleming nel 1945. Ma una cosa è certa: da quel momento, fummo invulnerabili. La stessa cosa era avvenuta, nei truci campi di battaglia, per l’invenzione molto precedente dell’armatura pesante, fatta in piastre di metallo ben saldate tra di loro. D’improvviso, non c’era fiume di dardi o punta di diamante, che potesse penetrare un cavaliere. E ciò fu l’inizio della fine. Gradualmente, la temibile arte di tirare con l’arco fu relegata a un mero passatempo, mentre la balestra, solamente, dominava i campi di battaglia. Eppure, persino oggi, può bastare una persona non vaccinata, per far nascere nuove varianti di un pericolo ancestrale…