Fino all’epoca moderna, col suo cemento e l’armatura impervia dell’acciaio architettonico, chi voleva costruire gli edifici per durare molto a lungo non aveva che una singola strada percorribile: la messa in opera di ciò che il mondo naturale ci offre come duro suolo, nella sua essenza materialistica più persistente. Roccia e pietra, pelle di pianeta, una sottile scorza estratta con fatica e quindi fatta a pezzi, ritagliata nella forma modulare delle pietre di castelli e cattedrali. Con l’incedere delle soluzioni migliorate, al giro dei secoli di molte costruzioni, tale pratica raggiunse l’assoluta perfezione. Così mattoni, l’uno sopra all’altro e calce per tenerli insieme, come i rigidi pilastri duri quanto querce millenarie. Non certo, letterali?
Il grande santuario di Ise sorge nella prefettura di Mie, in Giappone fin da quando Yamatohime-no-mikoto, la figlia dell’Imperatore Suinin udì la voce della sua antenata divina, sommo spirito del Sole, Amaterasu-ōmikami: “Questa terra è remota ed attraente. Voglio abitare qui.” Ciò avvenne, secondo quanto desumibile dalla cronistoria semi-mitica del Nihon Shoki, attorno al terzo secolo d.C. Per 20 anni, la principessa aveva viaggiato per il paese dalla sua residenza di Yamato, per trovare una montagna degna di una tale splendida eminenza, destinata ad essere per sempre sacra e venerata. Qualunque cosa fosse sorta in tale luogo, doveva raggiungere i posteri senza subire alterazioni. Non a caso, secondo la tradizione, proprio a questo tempio viene fatta risalire la nascita spontanea di un approccio nazionale alla costruzione di edifici, per la prima volta ben distinta dalle usanze provenienti dalla Cina e dalla Corea: pareti sottilissime, linee curve leggiadre ed aggraziate, nessun tipo di entasi o rastrematura sui pilastri e cornicioni estremamente pronunciati, a un punto tale che diventano verande. Il tetto, in questo tipo di architettura giapponese, è infatti un elemento dominante che raggiunge facilmente la metà di un edificio, quasi sempre di un solo piano. La separazione degli spazi è fluida o del tutto inesistente, con pannelli in carta di riso che possono essere spostati sulla base del bisogno; addirittura l’ambiente principale del tempio o della casa, se necessario, può essere aperto interamente agli elementi, per accogliere con entusiasmo gli ospiti e i visitatori. L’aspetto maggiormente significativo del santuario di Ise, e con esso di ogni altro tempio shintoista delle origini, è il suo essere fatto completamente in legno, senza l’ombra di un mattone o di una pietra. Secondo l’usanza religiosa, infatti, ogni 20 anni l’edificio deve essere demolito e ricostruito totalmente, onde procedere alla sua purificazione. Niente male, come modo per preservare le su tecniche realizzative, giusto?
E adesso viene il bello: fra quelle sante mure non si usano nemmeno i chiodi. In un paese ricoperto per il 70% di foreste, in cui i giacimenti di metalli resistenti sono sempre stati rari e poveri di quella componente carbonifera che consente di ottenere facilmente l’acciaio, tale approccio al fissaggio permanente degli elementi lignei non è mai stato concepito come logico, né pratico, né necessario. Pensate alla complessa forgiatura della spada giapponese, una sapiente commistione di diverse varietà di ferro, piegate e ripiegate su di loro: ecco, quello non era un semplice rituale culturale, ma l’unico modo disponibile per ottenere una tecnologia valida sui campi di battaglia, vista la natura scadente del materiale di partenza. E chi avrebbe mai avuto il tempo, di ripetere quei gesti, mille, centomila volte per ciascuna casa? La ruggine può far paura. Si usava quindi, piuttosto, un complesso sistema di incastri, definito sashimono, ovvero letteralmente “cose unite”. Un modo estremamente efficace di assemblare componenti, architravi ed anche pezzi di mobilia. Perché non solo i pezzi risultanti erano perfettamente solidi e funzionali, ma anche straordinari nell’estetica, tratto così fondamentale per gli ambienti abitabili di ogni paese.
Nel video di apertura, pubblicato a scopo divulgativo sul canale di Kobayashi Kenkou, appassionato di falegnameria tradizionale, si può osservare il metodo impiegato per formare un’architrave da due singoli elementi, tramite l’impiego di un cuneo d’ispessimento. La sezione da unire è stata pre-lavorata, ad entrambe le estremità rilevanti, secondo la prassi che noi definiamo calettatura, ovvero l’insieme ripetuto di una serie di tenoni (estrusioni) e mortase (rientri) perfettamente calibrati fra di loro. Ciò significa che, nonostante la grandezza e il speso delle due componenti, queste sono già inclini ad unirsi ed a formare un tutto inscindibile, non appena si introduce nel foro apposito una semplice pressione aggiunta, ovvero nello specifico quella di una serie successiva di paletti lungi e trapezoidali; in questo caso ne bastano due, ma è naturalmente necessario procedere per gradi, al fine di non danneggiare il foro d’ingresso. Nessun tipo di colla è necessaria per tenere assieme i travi, e la solidità finale sarà comparabile a quella di un pezzo singolo ed intero. Neanche la colla è veramente necessaria benché oggi, per ragioni di ulteriore sicurezza in situazioni telluriche, venga spesso usata. In effetti, alla fine, i due artigiani smontano di nuovo la loro creazione: si trattava solo di una prova a secco. In situ, le regole sono diverse.
L’antica arte del sashimono, un termine omofono col nome del caratteristico stendardo usato dai guerrieri samurai (ma è soltanto un caso) trova applicazione nei campi più diversi e non soltanto quello dell’architettura. La serie di documentari realizzati dalla NHK World, BEGIN Japanology contiene una puntata a cura di Peter Barakan in cui viene esplorato nei dettagli il variegato mondo dei falegnami giapponesi specializzati nell’arredo. In una serie di sequenze estremamente interessanti, il conduttore viaggia dalle antiche botteghe di Tokyo, che in epoca Edo (1603 – 1868) costruivano i mobili dei signori feudali e dello stesso shōgun, fino alle botteghe specializzate a margine dell’isola di Mikura, dove cresce una particolare varietà di gelso, rinomati per la loro resistenza e bellezza. Tali alberi, una volta abbattuti, non vengono trattati con sostanze chimiche, ma piuttosto lucidati attraverso l’impiego di una semplice foglia, sufficientemente ruvida da agire come un’alternativa naturale alla carta vetrata. Il colore che risulta da tale pratica è un marrone scuro dalla grana intensa, così esteticamente appagante che il falegname, idealmente, dovrebbe preservarne la continuità anche tra i pannelli perpendicolari di un singolo pezzo di mobilia. Un altro legno particolarmente amato è quello di Paulownia, a tal punto che esiste un’usanza, particolarmente diffusa nel nord del paese, secondo cui alla nascita di una bambina si dovrebbe piantare una di queste piante, affinché un giorno se ne possa trarre il mobile per la sua dote nuziale.
Le realizzazioni di questa tipologia vengono spesso tramandate da una generazione all’altra e anche una volta usurate quasi del tutto, non vengono gettate via. La tecnica di montaggio ad incastro infatti, a differenza dell’impiego dei chiodi, salvaguarda l’integrità del materiale e ne permette il reimpiego, previo restauro, all’interno di una versione rinnovata dello stesso pezzo. Non si tratta di altro che dell’applicazione, in scala ridotta, dello stesso principio d’impermanenza rinnovabile del grande santuario di Ise: nulla è eterno nello Shinto, ma tutto si rinnova, per un ciclo di rinascite non dissimile da quello del Buddhismo Mahayana. Che a sua volta, di ritorno dall’India e dalla Cina in epoca coéva alla nascita della civiltà classica giapponese, nei periodi Asuka (538-710) e Nara (710–794) portò a un diverso tipo di concezione architettonica, da sempre parallela a quella del sashimono: l’edificazione di imponenti e svettanti pagode, gli unici edifici degni di contenere le reliquie dei bodhisattva (gli spiriti salvifici) o i sutra, gli insegnamenti del Buddha stesso. Torri vertiginose, quelle, tutt’altro che soggette ad essere spostate o ricostituite, tutte pietra e solide fondamenta. Fatte per durare anche a seguito di guerre o rare carestie, quando la rinascita, da materialista, si fa filosofale. Nella storia giapponese, ciò succede di continuo: ci si sveglia buddhisti, si pranza shintoisti e si va a letto, perché no, con una preghiera al sommo kami dei cristiani. Per ricominciare il giorno dopo! E se non è questo un sincretismo veramente ben riuscito, ditemi un po’ voi…
Esiste un libro che racconta queste cose ?
Buongiorno, posso consigliarti due testi trovati all’epoca dell’articolo su Amazon americano, entrambi in lingua inglese:
– Wood Joints in Classical Japanese Architecture di Torashichi Sumiyoshi
– The Art of Japanese Joinery di Kiyosi Seike
Purtroppo non sono a conoscenza di autori italiani che si siano occupati dell’argomento.