Dal punto di vista grammaticale, geisha – 芸者 non è un termine plurale o singolare, maschile o femminile e neppure, nella sua accezione post-moderna, bipede o quadrupede, con il trucco oppure con le orecchie, lunghe, morbide e setose, di un piccolo coniglio da nutrire e accarezzare, dentro a un locale di ristoro del quartiere Asakusa, nord-est di Tokyo, presso il fiume di Sumida. Dove sorge o per meglio dire occupa l’intero sesto piano di uno stabile, l’Usagi-san Theme Park, filiale della catena nazionale “With Bunny” Cafè, gestita, a quanto pare, da un gruppo di sinceri amanti dei conigli, con tutti i loro figli, nonché del guadagno, indubbio e dimostrabile, che ti può portare quella soffice, carezzevole e bonaria ingenuità.
La cultura giapponese, non a caso, supporta da secoli una particolare branca dell’intrattenimento, che consiste nel pagare per passare il tempo con una qualche personalità aggraziata, preferibilmente umana e praticante delle arti nobili, per godere della sua preziosa compagnia. E non c’è nulla di segretamente sessuale, nell’incontro con queste persone lungamente addestrate, tradizionalmente, né comparabili secondi fini. Figuratevi anzi, che nel 1770 a Yoshiwara, secondo il testo della scrittrice Lesley Downer, Geisha: The Secret History of a Vanishing World c’erano 16 geisha donne e 31 uomini. Cinque anni dopo, si era passati a 33 donne ma gli uomini erano ancora 31, un numero ben presto destinato a raddoppiare. E non si trattava certamente di una strana usanza, o di pari opportunità decadute dalle origini di questo campo artistico, visto che ancora nel 1800, ormai alle soglie dell’occidentalizzazione, il geisha uomo era ancora assai diffuso, e ricercato per la sua abilità nel canto, nella danza e nel servire il tè secondo le complesse regole cerimoniali del cha no yu. Poi, gradualmente, la metà femminile della professione prese il sopravvento su quell’altra, i cui esponenti presero a farsi chiamare collettivamente taikomochi, i “maestri delle cerimonie”. Finché non giunsero i conigli, a fargli concorrenza…
Ci sono molti preconcetti errati, nella concezione internazionale del/della geisha, un retaggio probabile di quella stanca epoca sulla prima metà del secolo scorso, quando la visione nipponica del mondo era un sinonimo di guerra senza quartiere, mentre i soldati in uniforme giapponese sul fronte del Pacifico, come è tristemente noto, si abbandonavano a barbarici comportamenti, enfatizzati dalla contrapposta propaganda (e non furono, del resto, gli unici, né i soli in quel teatro di battaglia). Da allora e per lungo tempo fu inconcepibile, per la nostra mentalità occidentale, immaginare una relazione di estrema purezza d’intenti ed eleganza, dalle splendide connotazioni estetiche e rituali, com’era invece stata quella della geisha e il samurai. Che a conti fatti, mai s’incontrarono all’epoca remota dell’unificazione del paese, quando i signori della guerra in armatura, con lancia ed elmo decorato, come narrato nei romanzi storici, combatterono ferocemente per il predominio militare dei diversi clan. Molte delle usanze che erroneamente si attribuiscono all’era Sengoku (1467 – c. 1603) in effetti, come anche il teatro del kabuki e la stessa cerimonia del tè, furono piuttosto il frutto dei due secoli di pace successivi, sotto l’egida dei forti shōgun Tokugawa, grandi patroni delle arti, sia marziali che d’altro tipo. Finché non venne Restaurata, sotto il suono dei fucili, l’antica visione nazionalista con l’Imperatore divino, al centro dell’intero universo dominabile dall’uomo!
Che fine avessero fatto le geisha durante l’epoca dei grandi totalitarismi, non è molto chiaro. Né rilevante: ve lo immaginate un pragmatico ufficiale imperialista in divisa di chiara foggia europea, con la minacciosa spada ricurva al fianco, che la mette da parte, anche una sola sera? Per sedersi in una casa da tè, mentre figure impostate da trucco candido gli danzano attorno con ventagli e shamisen…Impossibile, indecoroso! La ferrea visione del samurai crudele e spietato, sempre pronto a commettere seppuku, fu in effetti frutto dell’agire di questi uomini, della loro specifica visione del mondo, che guardava si al passato, ma con convenienza e un solido criterio. Quando se c’è una cultura votata all’armonia ed alla grazia, all’amore per tutti gli esseri, per quanto piccoli ed inermi, era quella di chi prima di uccidere il suo nemico giurato oppur se stesso, almeno componeva una poesia…
Così si giunse infine, con un botto clamoroso e terribile (anzi, due) ad una nuova epoca di pace sulla scena della nascitura globalizzazione. Duratura fino all’inverosimile, stavolta, e conduttiva di un successo commerciale senza precedenti, inclusa l’esportazione estremamente valida di molte connotazioni culturali, che grazie ai loro meriti influenzarono le menti di metà del mondo contemporaneo. La predisposizione giapponese per una particolare visione delle arti, straordinariamente organica, votata a ciò che nasce dal concreto e quotidiano senso dei minuti, trova così nuovi terreni fertili, e concimi per fiorire.
Uno di questi è stata, certamente, la cultura moe – 萌え. Questo neologismo piuttosto recente, che trae l’origine dal termine che significa “bocciolo” rappresenterebbe una passione spropositata per tutto ciò che è kawaii – 可愛い, carino, adorabile, tenero e grazioso. L’intero quartiere di Akihabara, sito a Tokyo, si è gradualmente trasformato nel centro assoluto di questa sorta di fanatismo collettivo, con una spropositata quantità di negozi e istituzioni specializzate, per giovani e non, ciascuna dedicata ad un particolare mondo fantastico, oppure gruppo di personaggi, come ad esempio i Pokémon di Nintendo (in particolare, il vecchio caro Pikachu è ormai stato superato da Yokai Watch, un altro gruppo di mostriciattoli, questa volta provenienti dalle antiche usanze folkloristiche dell’arcipelago in questione).
La cultura moe viene spesso associata a quella, assai malvista in patria, degli otaku, tutti coloro che a tal punto amano quei mondi immaginifici e perditempo, da smarrire il contatto e l’interesse per la società. Quando, in effetti, si tratta di due strade parallele, ma ben diverse: perché, ecco, a ben guardarla, tutta questa storia dell’intrattenimento giapponese, segue un filo conduttivo ben preciso. E la geisha torna sempre di moda, anche se con un costume, ed un pretesto differente: sono assai diffuse in quel di Akihabara, ma anche nel resto della città di Tokyo e negli altri vasti centri urbani, i locali comunemente definiti Meido kissa – メイド喫茶, letteralmente, i bar con cameriere (in senso occidentale). Nello specifico, vestite con il caratteristico costume francese del XIX secolo, così tanto apprezzato dai feticisti di ogni nazionalità e predisposizione, inclusa, assai chiaramente, quella tipica dell’erotismo. Ma non lì, non ora: il/la cameriera di quei luoghi, piuttosto, offre ai clienti solamente la sua compagnia, ed il piacere sopraffino di una splendida conversazione. Guai, a chi dovesse toccare, o fare foto alla sua compagna stipendiata di una sera. Essa dovrebbe piuttosto essere idealizzata, come una dea. Oppure, perché no, come la geisha di cui sopra, oppure il gatto, morbido e insonnolito! Il coniglio sulla luna! Addirittura…La scimmia che ti porta la birra?!