In un vortice di zampe chitinose e tremende placche interconesse, il serpeggiante incubo di notti tiepide di primavera: scolopendra, oppure un millepiedi. Dentro una scatola, fulmine venefico che si attorciglia…Cosa sta facendo, come ci è arrivato? Soprattutto, verrebbe oggi da chiedersi, chi ce l’ha messo, lì arancione? C’è sempre una ragione, anche quando sarebbe davvero meglio non conoscerla, almeno, per chi ama gli animali piccoli e spietati. D’altra parte, affari suoi (o nostri, mostri). L’orrore di un momento molto naturale di barbarie, eppur tutt’altro che una tale cosa, per sua chiarissima definizione, data dal gesto imperioso di chi vuole, pure troppo & crudelmente, divertirsi: una battaglia indotta, come il classico incontro di wrestling o di pugilato, ma tra le forze degli artropodi infernali, nell’aspetto e per la predisposizione. Anzi che dico, pure peggio di così. Perché all’altro angolo di questa teca della morte ronza, un po’ nervosamente, nientemeno che lui/lei/esso: state attenti, è un calabrone giapponese!
La Vespa mandarinia non è come quella che conosci dalle scoribbande nei giardini della tua remota gioventù. Prima di tutto, perché può stendere uno yak. Cinque centimetri di lunghezza (puoi prenderla, per il suo stretto collo, fra l’indice ed il pollice e vederla ricadere fino al palmo, mentre si agita in attesa di vendetta) e ha un pungiglione lungo quanto l’ago di una piccola siringa, pressapoco o giù di lì. Come il cobra reale o lo squalo bianco, tale inclemente creatura caccia i suoi simili dalle comparabilmente ridotte dimensioni, incluse api, altre vespe e addirittura le mantidi stesse, creature, quelle, predatrici e fatte apposta per ghermire ciò che vola. Purché pesi ed odi meno, di colei che agita l’artiglio. Per tentare di afferrare, cosa, la morte stessa? Non scherziamo. Ben altro ci vuole, per fermare un simile mostruoso cacciatore. Ed è furba, la natura. Molto intelligente e razionale. Perché nell’evoluzione dei biomi rilevanti, asiatici e distanti, mai avrebbe previsto situazioni affini a questa: che il grifagno e lungo e furioso corazzato avesse da competere, per il proprio spazio limitato, con quell’altro, addirittura, il messaggero giallo e nero della fine. Metterci le mani è una strana follia, questo costringere tali maestosi-micragnosi esseri a sfidarsi, senza la minima intenzione di salvarne, più di uno al massimo, a dir tanto. Per lo meno fino al giorno del prossimo incontro.
Eppure, strano a dirsi, c’è davvero chi lo fa. E il catastrofico sito Internet, Japanese Bug Fights, una vecchia conoscenza digitale degli aspiranti entomologi spregiudicati ed amanti delle cose senza precedenti, ne raccoglie molti, dei siffatti e sconvolgenti eventi, in cui qualcosa, di alato, chelicerato, con pungiglione e/o chele, corni e/o arti simili a piccole ma taglienti armi, viene posto in condizione di lottare con la controparte di giornata. Un suo simile, nella disgrazia, eppure dissimile, nei fatti della semplice apparenza: perché i gamberi vengono mescolati con le cavallette, ragni con gli scorpioni e così via – l’unico classico ricorrente, sacro ed inviolabile come un incontro di sumo, è la sfida tra due coleotteri lucanidi, più meno uguali nelle dimensioni, vero caposaldo del sentire nipponico. Fin da quando il primo samurai d’epoca tarda di Kamakura indossò l’elmo celebre della sua casta. Che aveva, tanto spesso, un’ottima rassomiglianza con tale specifica creatura, l’Allomyrina dichotoma, o kabutomushi: davvero strano e significativo, chiamar quest’ultimo l’insetto-elmo, piuttosto che il contrario. Quasi che l’idea guerresca di spiccare fra la folla, in mezzo al campo di battaglia, fosse ancor più antica, addirittura, dell’animale stesso…
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La passione dei giapponesi per gli insetti ha radici storiche e culturali davvero molto approfondite. Ben prima che giungessero, dalla remota India e attraverso Cina e Corea, le sacrosante pergamente del Buddhismo, in questo paese vigeva la dottrina filosofica dell’animismo, arricchitasi, nei secoli, di complesse implicazioni rituali. Ciascun tempio cittadino, ogni santuario del vasto arcipelago, era dedicato alla venerazione di un principio originario, un sommo kami solamente suo, presso cui sacrificare soldi, cibo gustoso, carta ancora più preziosa. C’erano divinità nascoste nelle fiamme, tra le nubi, oltre la tenebra notturna e fin sugli astri splendidi e remoti, oltre che appese sotto i portali, in effige, grazie all’opera di abili ingegneri. Ed altre, molto più prossime alla vita degli umani, strisciavano sotto la terra, indisturbate, come larve impervie al crudele incedere del tempo. Eppure, non delle stagioni…
Immortale, perché pregno. Significativo, in quanto sofferente: colui che si sacrifica, nelle culture di ogni angolo del mondo, è pur sempre eternamente rinnovato, nello spirito come nel corpo, finché un giorno certamente tornerà. Così gli insetti venerandi, simbolo di forza e del coraggio di chi è saldo, nonostante tutto. Avete mai tenuto in mano un coleottero rinoceronte adulto? Nonostante l’apparenza non è affatti fragile, anzi, tutt’altro! Con le sue zampette rigide, ricorda il morso carezzevole di un cagnolino. Ma da giovane lo sai cos’era? Un verme, senza un gammo di solidità. Sopito, anche per lunghi a faticosi anni, sotto il freddo strato fertile della foresta. Fino al sopraggiungere di…Un segnale. La riaccensione del forno atomico stellare, quel Sole infaticabile, che risvelga con il suo calore, portando i sognatori nella luce e sotto gli occhi della collettività. Dapprima riveriti ed onorati, tali insetti sono presto diventati un passatempo per gli umani. Benché egualmente basata sul concetto di armonia, la religione shintoista non ha mai mutuato dal buddhismo quel senso onnipresente di rispetto per la vita in quanto tale. Essendo fondata, piuttosto, sull’assoluta purezza degli intenti, il desiderio di lasciare un segno immanente nel sensibile, per quanto piccolo, oltre la caducea permanenza della propria vita, sulla Terra inconsapevole e distratta. Cosa vuoi che sia, dinnanzi a tale meta ambìta, sacrificare la prosperità di un piccolo essererino, purché… La sua fine sia davvero degna. La memoria vince quasi sempre, sopra la materia e poi lo sai… Quel guerriero già citato col kabuto, il fiero samurai, portava sulla testa tale effige. Affinché decapitato, oltre la morte, avesse ancora un bell’aspetto, sopra il tavolo del suo nemico.
Ed è ormai assodata, tale prassi, nella cultura globalizzata (e ormai anche globalizzante) del Giappone contemporaneo. Dove la battaglia tra i diversi, piuttosto che gli eguali, è il fondamento di un’intera visione artistica e d’intrattenimento, manifesta nei migliaia di fumetti, videogiochi di tremendi scontri senza fine, variopinti e splendidi che… Noi tutti conosciamo. Cos’è un Pokémon, un Digimon o Medarot (etc.) del resto, se non l’ennesima vittima di questa stessa “crudeltà”. Fattosi fin troppo vera, attraverso i brevi, spettacolari e misteriosi video di Japanese Bug Fights. Ma scandalizzarci, a questo punto, sarebbe come rifiutare la caccia, in quanto tale.
E poi pranzare con bistecche di mucca o sapide braciole cotte sopra un fumigante barbecue…