Guardate palesarsi, dall’assoluto nulla pre-esistente, la struttura perfettamente geometrica di una tradizionale cupola abitativa messicana. Senza particolari impalcature, né soluzioni tecniche meccanizzate, l’operaio esperto dispone, l’uno dopo l’altro, i suoi mattoni a parallelepipedo. E non c’è nessun segreto, tranne l’uso di una calce a presa rapida particolarmente ben mescolata, in grado di sostenere tali oggetti dopo un paio di minuti dall’apposizione, e forse, dico forse, un certo grado di stregoneria. Che poi sarebbe la stessa cosa di anni ed anni di preciso lavorìo, meno la bacchetta magica, ed attento apprendistato, finché ad un certo punto, d’improvviso, si raggiunge uno stato superiore di coscienza. Chiamatelo pure, se volete, lo Zen del muratore? La perfetta via dell’adobo, quel mattone cotto da cui prende il nome la più celebre suite dei grafici, principali artisti del moderno…Quando qui, è davvero chiaro, di moderno resta poco. Tranne il desiderio, sempre forte e indubbiamente attuale, di far le cose bene, ovverosia, una volta solamente.
Questa particolare tecnica architettonica, definita in gergo volta catalana, trovò vasta applicazione in tutta la penisola Iberica del tardo Rinascimento, come ciliegina posta sulla cima delle ricche chiese e case nobiliari, sul modello fiorentino che il Brunelleschi seppe riproporre al mondo. Ma che veniva da millenni, oltre che chilometri di traslazione. L’elemento della cupola modulare, ovvero fatta di elementi ripetuti, è un simbolo potente della storia. Pensateci: tutti quei singoli agglomerati di materia, messi lì dall’uomo e che ci restano, per il suo imprescindibile volere; esattamente come le stelle dell’alto firmamento, per la volontà divina! E nei tempi precedenti all’invenzione del telescopio, del resto, non c’era certo questa concezione dello spazio siderale, vasto e variegato, con milioni di astri su di un piano tridimensionale. Ma la percezione, assunta per purissima evidenza, del concetto d’atmosfera: si, che il cielo fosse in qualche modo curvo. E che attraverso esso, per una misteriosa volontà, fossero stati praticati numerosi buchi, luminosi del baluginio del…Cosa c’è, al di là di tale cupola dell’universo? Ah, è una lunga storia. Che prende giunge intatta fino a noi, assai probabilmente, fin dal tempio di Adriano, Imperatore (regno: 117-138) colui che fece riparare la basilica di Marco Vipsanio Agrippa, già distrutta da un incendio. Un Pantheon dedicato a Giove e tutti gli altri, quella famiglia vagamente scapestrata. La cui abitazione era tutt’altro che simile alle altre a quanto dicono, tanto per cominciare, perché rotonda, invece che a navate. E poi per i cinque ordini di 28 cassettoni, posti a calotta con simmetria centrale, dalla pianta tonda e la parabola incipiente. Sotto questi, le divinità ritratte in statue. Sopra di essi, l’altro cielo, quello vero e sconfinato. Non per niente un buco sulla cima tende ad esso, l’Infinito. A sua volta costruito, nella mente di chi metteva assieme cattedrali, da un diverso tipo di onnipotente, come era l’Imperatore, per chi sposta i materiali inerti. Fino all’Oriente di Costantinopoli, giunse una simile visione costruttiva e poi da lì in Arabia, in India e fino in Cina, dove la cupola non è particolarmente diffusa, ma pur presente. Finché un giorno, guarda! Michelangelo ha fatto per Roma dei disegni, fra i molti altri, e l’architetto Giacomo della Porta, per volontà papale, ne ha tratto il suo capolavoro. San Pietro ha ricevuto il Simbolo, e noi con esso, affascinati.
Venne poi il Barocco, col tripudio di spirali e meraviglie, le alte mura decorate, i gran dipinti su di esse. Quando tutto era grandioso e straordinario, perché infuso del sentire mistico di un volto sacro e indefinibile, ma indubbiamente molto bello. E le volte si fecero maestose, giganteggianti. Son di quest’epoca le gran basiliche e stupende cattedrali, disseminate per la vasta Europa. Fino in Inghilterra, con la svettante St. Paul di Christopher Wren, già un razionalista del pensiero, quasi un costruttore tecnologico ante-litteram, questo elemento architettonico fu condotto alle sue estreme conseguenze. Impegnativo, complesso. Ingegneristicamente, quasi inaccessibile. Quando era tutt’altro, da principio. Chi non ci credessi guardi, per comparazione, ancora due minuti almeno… L’operaio messicano sa la verità…
La volta catalana si basa sul principio della ricorrenza dei fattori di sostegno. È la chiara dimostrazione, per chi ha voglia di comprendere, che ciò che regge un singolo mattone, quando egualmente distribuito, può farlo con un numero…Illimitato? Quasi, benché sia strano a dirsi. La particolare tecnica edilizia, che ebbe dapprima un ampio successo nella città di Madrid, permetteva di costruire tetti molto vasti, proprio in funzione della sua curvatura particolarmente gentile. Questi, successivamente, erano tanto solidi da poter sostenere un secondo piano, cosa che ancora fanno, parecchi secoli dopo. Per una chiara applicazione del principio dell’arco, infatti, questo tipo di soffitti riesce a scaricare il peso verso i lati, sulle forti mura di sostegno. E si dice che persino un crudele terremoto, di una ragionevole potenza, non possa fare altro che dargli una scossa, a tali tetti, e poi cessare, senza colpo aver ferito. Tale è la solidità di una simile creazione, così apparentemente semplice, che pare nascere dall’arte di arrangiarsi. Un mattone regge l’altro che a sua volta…E così via! Ci si può far prendere la mano. Non è in effetti difficile immaginare l’entusiasmo con cui la popolazione nativa del Messico, venuta a contatto coi coloni e gli ecclesiastici del Vecchio Continente, abbia subito adottato un simile espediente, così utile ed immediato. La volta catalana, inoltre, ha naturali capacità d’isolamento termico molto adatte a tali latitudini, e una volta ricoperta nella parte superiore di un materiale compatto (oggi si usano materiali moderni) resta fredda l’estate, e calda l’inverno.
Con il passare dei secoli cambiano le priorità. Finché oggi, quando ormai tutto è possibile, grazie ai materiali e alle sostanze chimiche, la nanotecnologia, molecole ed atomi aggiògati, si ritorna alle origini, ma per un desiderio differente: la bellezza estetica, della chiara funzionalità. Guardate ad esempio Gaudì, che della volta catalana ha fatto un’arte, il punto di svolta geometrico delle sue poliedriche creazioni. E nel frattempo c’è un chiaro intento di marketing, in certi video di YouTube, in cui si fa un continuo riferimento all’abilità dell’artigiano messicano, alla sua disponibilità a viaggiare, e si conclude con recapito anche telefonico, ponendosi al servizio degli interi Stati Uniti. È infatti un fatto molto noto che la volta catalana, sulle soglie del XX secolo, sia stata importata nel Nord America, soprattutto grazie all’opera dell’architetto e costruttore valenciano Rafael Guastavino Moreno (1842-1908) l’inventore di un metodo brevettato per adattare la cupola digradante ai vasti edifici pubblici e industriali della modernità. La sua idea fu semplice geniale: piuttosto che disporre dei mattoni, per le sue imprese troppo vaste, lui impiegava un vasto numero di tegole ad incastro, rese solide grazie all’impiego di uno strato di coesione. Tradizionalmente, si consigliava l’uso del cemento di Portland, tra i materiali più diffusi al mondo. La Guastavino Company, dalla sua sede di Woburn, Massachussets, guidò la costruzione di numerosi edifici e celebri opere pubbliche del suo paese, tra cui la metropolitana di New York, significativa per certe sue volte riccamente decorate, che parlano di un orgoglio urbanistico piuttosto ignoto, a noi europei moderni. Particolarmente memorabile per chi lo visita, benché molto meno esteso, resta inoltre il caratteristico Oyster Bar, della Grand Central Station di quella stessa saporita Mela.
Per mangiare o prendere il caffè, sotto un tetto di stelle metaforiche, prima di partire verso un viaggio avventuroso. Proprio come fecero quei muratori di un’antica epoca, che capirono come il mattone possa stare su. Anche quando non ha nulla, sotto. Tranne il pensiero!