In macchina nella Detroit del giorno dopo

Detroit Decline

Un albero con fiori candidi, alto quanto un palazzetto di tre piani. Dal tronco forte come sono rigogliose le sue fronde, che gettano l’ombra sulle piane del ridente Michigan, fra l’acqua dell’Atlantico e gli specchi sconfinati dei cinque Grandi Laghi americani. Questa era Detroit, verso la metà del XVI secolo. Fondata dai cacciatori di pellicce francesi, poi cresciuta a dismisura, quasi subito, per la sua collocazione propedeutica al commercio. E quanta legna, trasportata dai suoi porti laboriosi, navigò i canali fino ai centri urbani dei neonati Stati Uniti! Finché nel 1796, mentre faticosamente si spegneva l’eco di 100 tremende cannonate, non cambiò bandiera, tra il tripudio popolare, mentre l’omonimo fiume, come sempre aveva fatto, bisbigliava indisturbato. Ciò che accade ancora adesso, tra le strade di un asfalto imperituro. Ma qualcosa, qui, è cambiato. L’albero non ha il sostegno di radici, e dopotutto, c’erano mai state? Cos’è apparenza, cosa mistica sostanza?
In questa semplice ripresa dall’automobile di TheDonKingCon, abitante locale sulla strada per il luogo di lavoro (come tutti i santi giorni) si osserva la realtà del punto in cui siamo arrivati. C’è un quartiere semi-deserto, ricoperto di macerie, case derelitte. La spazzatura agli angoli delle strade, che ancora nessuno ha raccolto. Forse, mai succederà. Superati gli incroci con strade di scorrimento, l’unico rumore che si sente è quello del motore, accompagnato dalla musica di sottofondo, appropriatamente disarmonica e insistente. È una visione più bizzarra che inquietante: ecco qui, in un mondo in cui la povertà si scontra col bisogno, qualche dozzina di ottimi lotti abitativi, qualche volta già graziati, addirittura, da gradevoli bicocche. Ma del tutto vuote, come zucche abbandonate sulla sabbia. Non ci sono bici nei vialetti. Niente bambini che giocano in giardino. Neanche un cane, metaforico o magari letterale, che corre o canta & abbaia spensierato. Finché, d’un tratto allo spettatore non sovviene l’interrogativo. Cosa…Come…Ma dove mai se n’è può essere andata, tutta la gente che abitava in questa zona di Detroit?!
I censimenti governativi parlano di una situazione senza pari nell’intero primo mondo. Dal milione e 850.000 abitanti che aveva negli anni 50, la città è declinata a soli 701.000 nel 2013, mentre una fetta significativa delle grandi industrie, con i loro molti fornitori di supporto, le aziende addette al marketing ed il terziario, sono migrate al di là dell’acqua turbinante, verso la città di Windsor, maggiormente conduttiva ad una situazione di serenità situazionale. O piuttosto, molto più lontano, in lidi dove la fatica costa meno. E il sudore della fronte collettiva scorre, come tali e tanti fiumi millenari.
Quasi come il realizzarsi di una sinistra profezia: la città che sorse assieme all’industria automobilistica, ne diventò il simbolo. E con essa, crollerà?

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Charlie Leduff, uno strano giocatore di golf in giro per i ruderi dismessi

La storia di Detroit, persino vista da lontano, fa una certa impressione. Un conto è parlare dell’attuale crisi economica, viverla persino sulla propria stessa pelle. Perdere quel senso di benessere che fu il fondamento della nostra stessa gioventù; ma vedere scomparire lentamente un’intera presenza urbana, parte imprescindibile di quel che ancora sarebbe “il paese più forte al mondo” ci mostra un futuro privo di speranze di rinascita. Distopico quanto un certo tipo di cinematografia pseudo-fantascientifica, che certamente trovò proprio in questi luoghi una sua valida ambientazione, tra le altre, con il film Robocop del 1987. Ed ecco dunque, se servisse, la prova che i segni già c’erano, qualcuno li aveva percepiti. Come si usa dire: Roma non fu (s)fondata in un giorno. Come il Declino di Detroit è ormai diventato un vero e proprio poema, su cui gli economi, i sociologi e numerose altre categorie di studio si arrovellano da almeno un paio di generazioni.
Tutto iniziò, secondo molti, con la voglia di spostarsi col motore. Negli anni immediatamente successivi al 1900, Detroit aveva una popolazione di 285.000 persone, valida a classificarla come la tredicesima (!) città degli stati uniti per grandezza. Poi venne aperta, in Mack Avenue, la piccola fabbrica di un certo abile industriale, con tante idee quanti erano i suoi aforismi, tra cui il celebre: “Se avessi ascoltato i miei clienti, avrei dato loro un cavallo più veloce.” Il nome di quell’uomo era Henry Ford. Ben presto, il suo successo inusitato porta capitali d’investimento senza precedenti, e la città si trasforma in una decina di fulgidi anni. Fabbriche dalle catene di montaggio chilometriche sorgono in periferia: si dice che presso la sola iconica River Rouge plant lavorassero all’incirca 95.000 persone, in buona parte operai specializzati ed altrettanto ben retribuiti.

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L’ottimo documentario breve pubblicato sull’argomento da Journeyman.tv

Ma il ventesimo secolo, come ben sappiamo, portò con se un altro bagaglio di drammatici problemi. Lo scoppio della prima guerra mondiale fu un punto di svolta per Detroit. Ecco che la neonata industria automobilistica, fondamento stesso della cosiddetta Motor City, si vedeva forzosamente reclutata una cospicua parte dei suoi fabbricanti, niente meno che la linfa, di quell’albero metaforico di cui sopra. E non tutti tornarono, alla fine. Cosa fare, dunque, per continuare a crescere, sinonimo capitalista di sopravvivenza? La scelta fu obbligata: un bando di reclutamento trasversale. La raccolta dei bisognosi. Nelle nuove fabbriche, veri meltin-pot culturali, c’era un’alta percentuale di immigrati dell’Est Europa, italiani, canadesi. Fu inoltre allora, tra gli anni 30 e 40, che la città si guadagnò il suo volto prevalentemente black, a seguito dell’ampio afflusso di afro-americani, in cerca di fortuna nelle terre settentrionali, per allontanarsi dal clima segregazionista e le sgradite leggi sociali del profondo sud.
E questo fu subito un problema ma non per l’interculturalità in quanto tale, bensì per il bagaglio di residui preconcetti che guidava il progetto stesso della crescita urbana di Detroit. Le nuove periferie con le iconiche villette a schiera, conformi alla visione idealizzata del cosiddetto sogno americano, erano in realtà appannaggio di una sola etnia. Mentre ci si aspettava che gli altri abitanti della città, come da prassi operativa e giustificabile, continuassero a vivere nel centro, in prossimità dei luoghi di lavoro. Verso l’inizio della seconda guerra mondiale, Detroit aveva fatto di questo sistema una vera e propria bandiera, e la sua efficienza produttiva fu tale da poter fornire, a maggior vantaggio della patria, un numero spropositato di aerei, carri armati. I guadagni di quell’epoca, dunque, furono reinvestiti con variabile oculatezza.
Sono, questi, gli anni della General Motors, il gigante che mai nessuno avrebbe pensato vulnerabile. In pieno centro, verso la metà del secolo, la major costruisce il suo nuovo simbolo dinnanzi al mondo: il Renaissance Center, un colossale complesso di sette grattaceli interconnessi tra di loro, con hotel, centri commerciali e persino un museo dell’automobile. Un nuovo sistema di superstrade, inoltre, viene costruito a beneficio dell’elite manageriale, per condurre gli abitanti dei sobborghi fino a tali augusti lidi, con il massimo dell’efficienza e della razionalità. Per fare questo, interi quartieri e luoghi storici vengono rasi al suolo, fornendo solo un mese di preavviso agli abitanti di tanti palazzi e condomini centenari. Cresce, di pari passo, il tasso di criminalità e disagi sociali, oggi tra i primi posti nell’intero mondo occidentale. Scoppiano le prime rivolte: nel 1967, l’intervento troppo duro della polizia presso un bar dei quartieri disagiati sfocia in una vera e propria sommossa, con 43 morti ed oltre 1000 feriti. Crolla, conseguentamente, il valore degli immobili.
“Ho centralizzato la mia intera filiera produttiva in un singolo luogo, pieno di sindacati e coscienza della propria condizione ingiusta. Se dovesse scoppiare uno sciopero, allora…” Così discutevano, nei loro country club, certe eminenze grige di quei tempi. E fu così che gradualmente, ma inesorabilmente, i grandi stabilimenti d’inizio secolo venivano chiusi, a vantaggio di nuovi metodi produttivi, maggiormente profittevoli, situati in luoghi geografici più vantaggiosi. Intere piccole città artificiali, le maquiladora, vengono fondate oltre il distante confine del Messico. Altro non sono, in realtà, che fabbriche di automobili americane, gestite da quegli stessi alti grattacieli di Detroit. Siamo agli inizi degli anni ’90. Non c’è Robocop che tenga, ahimé.
A quel punto, è un effetto domino inarrestabile. Gestioni cittadine successive, incapaci di risolvere i molti problemi gestionali, sconfinano piuttosto nella corruzione. Il budget troppo basso della polizia, oltre che dei vigili del fuoco e degli altri servizi, li costringe ad abbandonare intere zone cittadine. Finché, l’anno scorso (2013) non si giunge alla dichiarazione di bancarotta: Detrot (l’impresa) è morta, sia lunga vita a Detroit (la città!) Del resto la Storia è lunga e piena di sorprese, rinascite miracolose. Il futuro, di per se, resta decisamente poco chiaro.
Simili vestigia, frutto dell’abbandono urbano, parlano di un consumismo portato alle sue estreme conseguenze. Quasi che la vita stessa, una volta terminata la sua utilità funzionale, possa essere scartata, assieme ai luoghi in cui si svolge, lasciata a macerare sotto un Sole senza un grammo di pietà. June Thompson, professoressa di architettura dell’Università del Michigan, racconta nel documentario di Journeyman Tv, How Detroit became America’s Warzone: “Io e mio marito abbiamo visitato con gli studenti, l’anno scorso, in alcune zone totalmente irrecuperabili e del tutto prive di abitanti. È come se la città si fosse invertita: al centro la periferia, ai margini la popolazione. Forse, l’unica speranza sarebbe tornare alle origini del mondo, per coltivare tutti quei cortili come fossero comuni fattorie…”

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