“Silenzio in aula, piccioni che non siete altro!” Il giudice è una colombella dalle lunghe piume nere con riflessi azzurri, dotata d’occhialetti di metallo in bilico sul becco. L’alta parrucca candida e incipriata, su di lui, fa l’effetto comico di un ornamento di Natale. “Siam qui riuniti per questioni serie, mica starnazzate dell’ultimo minuto! L’accusa è il disturbo della quiete pubblica, quel crimine efferato, il contrario dell’addomesticazione. Punizione: niente croccantini per un mese” Si guarda attorno nervosamente, da dietro lo scranno, un secchio metallico della mungitura. Batte quindi il piccolo martello miracolosamente stretto tra le piume dell’ala destra due, tre volte, finché lentamente, non si torna ad uno stato ragionevole di quiete. L’avvocato della difesa, drizzando le sue formali corna da gufo comune, prende sdegnosamente la parola: “Vostro ooo-uuuh-onore, come potete vedere, è la natura degli uccelli. Siamo nati sotto il segno del rumore, tutti quanti. Il mio cliente stava facendo solamente il suo mestiere ereditario, nulla meno e nulla più” Obiezione! Grida una gallina dell’ultima fila, entrata lì per caso. QUACK-QUACK, si ode dietro l’uscio del granaio, per l’occasione tirato a festa, come non avveniva fin dall’epoca di Animal Farm, viz. la prosopopea satirica frutto dell’orwelliana persuasione.
Il candido cacatua Cucù, del tutto estraneo alla gravosa situazione, si erge in un angolo, perplesso. Qualcuno saltella silenziosamente verso il banco, un fulmine di splendidi colori: è il fagiano dell’accusa, uscito all’improvviso da un pertugio fra la paglia! Cogliendo l’attimo fuggente, agita la coda verde, rivolge la vermiglia testa verso il banco e dice: “Chiiiii-edo umilmente un attimo di attenzione. Sono due giorni che discutiamo, senza raggiungere un verdetto. Siamo stanchi, infastiditi ed umiliati.” I passeri della giuria annuiscono e si chinano a beccare il suolo inutilmente, per sfogare il nervosismo e la ruggente fame, loro stato delle cose quotidiano: “La vita dell’uccello è già piuttosto fastidiosa, senza metterci questo carico aggiunto, della cattiva reputazione con gli umani, che ci danno da mangiare.” Mentre parla il suo compare, gallo cedrone con la cresta gialla, porta un oggetto quadrangolare dentro l’aula: “Chiiiii-natevi a guardare. Questo qui è un TA-BU-LET. L’ho avuto, assieme ad una SCHE-TA di memoria, qualunque cosa sia. Le mie fonti, che non sono tenuto a rivelare, mi hanno fornito la registrazione della scena in questione. STATE PRONTI ADESSO, FORZA FALLA PARTIRE!” Le oche corrono, le quaglie saltellano sul posto. Un cenerino, preso dalla frenesia, rotola scimmiescamente a terra. Mentre il giudice batte nervosamente il suo martello, gli sguardi della collettività si posano sul cacatua Cucù. Il pappagallo tropicale, mai davvero bene accetto tra uccelli della fattoria, non si è mosso di un centimetro. Ma il suo becco ricurvo, adesso, e spalancato. Si spengono le luci, parte la registrazione.
La scena, da principio, appare poco familiare. C’è un divano nero, al centro e in basso dell’inquadratura. Strani quadri alle pareti, tende variopinte. Pochi, tra i presenti, riconoscono la casa del padrone. Ma per tutti gli altri, ciò che conta è chiaro: perché campeggia in primo piano, sopra un trespolo bizzarro e flessuoso con campanellino lui, l’accusato. È perfettamente immobile. Loro non lo sanno: sta guardando la TV. Nel frattempo Jimmy e Kevin, i suoi cugini pappagalli, delle vistose are gialle e blu, parlottano tra loro. All’improvviso, succede qualche cosa fuori dalla scena. Cucù guarda in basso, poi comincia ad agitarsi. Fa su e giù con la testa, flette la struttura su cui è appollaiato. Sembra preoccupato, quindi inizia ad agitarsi. Spalanca il becco e dice: “Aaaaah, non ne posso più. Non vi sopporto più. Fate silenzio. Dannati scocciatori, cosa diavolo volete? Basta, basta, mi avete annoiato. Sono stanco di voi, delle vostre baggianate. Oooooh, ora basta, signori miei. Eeeeh, no, fatela finita. Insomma, qual’è la ragione, di quest’insistenza senza fine, la vostra stupida….” E così continua, salendo di tono, finché il suo grido non diventa un’ingrabugliato CRAAA, CRAAA, CRAAAK e lui sbatte la testa in ogni direzione, alza la cresta, fà vistose giravolte. La pallina di metallo assicurata al trespolo continua a tintinnare, senza posa.
La scena è così tremenda, e incomprensibile, che infine cala il silenzio nel granaio. Tutte le oche e le galline hanno gli occhi strabuzzati. Qualche passero si copre gli occhi. Il fagiano, con l’aria alquanto saccente tende l’ala verso l’accusato e dice: “Ho finito, vostro onore!”
Ma il gufo della difesa non si perde d’animo. Ha parlato, proprio l’altro ieri notte, con il cane di casa, un piccolo terrier dal pelo ruvido, che conosce e comprende certe cose molto meglio di lui. La luce tenue di una notte senza stelle, fredda e nuvolosa, si è prestata da scenario per recarsi via dal bosco. E lui, andando ben oltre il suo dovere d’avvocato, ha bussato quattro volte alla finestra della cucina, come concordato. Il peloso quadrupede, un suo vecchio amico di bevute, è saltato sopra il tavolo e ha parlato: “BOW-WOW-WOWOOF, BEOWOOF, BOWOWOWOF, wuf, wuf. WOOOO-WUO-wuf-wuf” Poi ha tirato fuori la lingua, sorridendo. “Abbassa la voce, stolto, sveglierai i padroni! Se mi vedono, saranno guai…” Fece quindi il più saggio degli uccelli, già piuttosto indispettito dalle false voci sulla sua genìa, alimentate da quella dannata serie di Harry Potter. “Ci manca altro che quelli (gli umani) mi vedono da queste parti e pensano che voglio portarmi via quel babbeo del figlio adottivo” Al che il cane annuisce pensoso, scodinzola e fà un WUF, per il messaggio ricevuto. Qualche ora dopo, dizionario cane-uccello alla mano, la storia diventa lunga, elaborata. La ragione del disastro, il dannato fraintendimento e finalmente chiaro! Allora, il notturno visitatore batte l’ultima volta sul vetro e vola via, lasciando il cane al suo tepore casalingo, all’osso di gomma e l’imbottita cuccia nel salone. Però. Mica male, tutto per una pallina riportata o due?
“Ma torniamo a noi!” Fà il gufo. Il giudice-colombo lo guarda strano, voltandosi di scatto. La parrucca gli pende pericolosamente da una parte. “Dannazione, l’ho detto ad alta voce!” Di nuovo. Adesso si è voltato pure l’imputato, sempre più ansioso, che sembra voler prendere la parola a sua volta. Ma naturalmente, come suo solito da quel dannato giorno, tace. “Vostro onore!” Inizia il gufo: “Io conosco la radice del problema. Quel fagiano col suo gatto ladro, probabile fornitore dell’arnese elettronico qui presente, vuole farvi fermare alle apparenze. Ma Cucù è innocente, e ne ho qui le prove!”
Una SCHE-TA spunta, all’improvviso, dalle tasche del pennuto. Il fagiano sta per protestare, ma il giudice parla per primo: “Bubububu-bene, questa è cosa buona et giusta. Se l’accusa può disporre di un TA-BU-comesichiama, anche la difesa deve usarlo. Prego, si proceda.” Gallo cedrone, un po’ scornato, lascia il passo. C’è qualche attimo di perplessità generale, mentre il gufo, faticosamente, estrae la prima SCHE-TA e mette l’altra nell’alloggiamento, quindi preme play. Sullo schermo compare una figura umana. È un personaggio della TV. Porta uno strano cappello a forma di pollo, con tanto di coda, ali e becco rosso, mentre un pubblico di bambini, estasiati, si aspetta qualche cosa da lui. Quello batte il piede a terra per tre volte e inizia a fare: “Aaaaah, non ne posso più. Non vi sopporto più. Fate silenzio. Dannati scocciatori, cosa diavolo volete? Basta, basta, mi avete annoiato. Sono stanco di voi, delle vostre…” E continua, continua, mentre i bimbi ridono, si scambiano vistose pacche sulle spalle. Alcuni battono le mani.
Nell’aula scorre un brivido improvviso, come una corrrente elettrica di straniamento. Il giudice annuisce, lasciando cadere la parrucca. Nemmeno se ne accorge. Il fagiano pare perplesso, non ha compreso, oppure finge, per spuntarla lui. Cucù il cacatua nemmeno si è mosso, però ha chiuso il becco e guarda fisso il gufo, evidentemente grato. Il video termina e si accendono le luci. “Hoot, hoot, colombi, piccioni e gallinelle mie. Ve lo dico chiaramente: il pappagallo non faceva degli schiamazzi a caso. Lui stava IMI-TAN-DO. È una pratica della sua razza. Fate entrare i testimoni.” Jimmy e Kevin, le due are della casa padronale, si avvicinano al banco e prendono a gracchiare mille cose senza senso. Poi tacciono, in attesa.
Il giudice ora sa: “Quindi loro..loro, gli umani intendo. Sentivano parole nella loro lingua. Ah, si. Strana coincidenza, ma evidente. I nostri CRAA-CRAA, per loro, non hanno un grande senso. Ma l’umana locuzione, alle nostre orecchie, assume gravidi significati. Così che, quelli che a noi paiono insulti, in realtà sono lazzi, scherzi e barzellette, addirittura complimenti. Incredibile!” Si china per raccogliere la parrucca, sistema un po’ gli occhiali: “A questo punto, tutto è chiaro. Ma per la prassi, devo lasciare la parola alla giuria.” Tutti si voltano verso i passeri, che però nel frattempo, se ne sono andati. Chiaramente, la loro durata d’attenzione si era esaurita ormai da tempo e sono andati a pranzo. Degli stessi fagiano e gallo cedrone, non v’è traccia alcuna. Jimmy e Kevin stanno saltellando verso l’uscita. Restano soltanto, il gufo, Cucù e le galline, che a quanto pare, non avevano nulla da fare. La difesa e l’accusato si guardano, socchiudono i becchi, come ad un accenno di sorriso. Il giudice, perplesso, batte il suo martello: “Va bene, questa è l’ultima volta che…Si, INNOCENTE!” Passa un secondo, ne passano due. Il pappagallo bianco, vittorioso, alza la cresta. Scuote la testa e ricomincia la sua tiritiera: “Aaaaah, non ne posso più….”