Il pianto dell’oblungo vibro-sintetizzatore

Yaybahar

Resta strano, quel tipo di video che ti mostra un luogo affascinante, però solo dall’interno e unicamente per la cosa che c’è dentro. Yaybahar: da qualche parte sulla costa turca sorge questa torre ottagonale. È parte di un complesso, assai probabilmente, come uno chateau, il palazzo costruito da qualcuno. Forse un druido di passaggio. Oppure è sorta sopra le pendici di un dirupo, nel giro di una sola notte, oltre l’onda di marea e fra l’ombre di cipressi silenziosi. Chi può dirlo? C’è qualcosa di diverso, in questo luogo, come un senso di profonda aspettativa. Gli uccelli non si posano sopra l’alto tetto, i cervi stanno fuori la portata di quei muri. Anche se non vedono, ciò che invece adesso è chiaro. Si accendano le telecamere che inizia quel concerto. L’ultima solenne vibrazione.
La fantasia e l’inventiva di un artista come Görkem Şen, del resto, è adatta solamente per i nostri occhi di visitatori umani, sovrumani e tutti gli altri in grado di capire. E soprattutto, per le orecchie a punta tese da migliaia di chilometri, a udire virtualmente un tale canto melodioso, senza veri equivalenti nell’intero mondo naturale. Che ci ricorda il vento, però è più veloce di un ciclone. Che riproduce un po’ le onde, ma di un mare… Dal profondo sentimento, con milioni di meduse variopinte a far da chiavi di violino. Sinestetico è il principio, ingegnosa la sua esecuzione. Nebulosa, la funzione. Simili suoni variabilmente discordi, di sicuro, non sfigurerebbero in un tempio tibetano, tra gli altri mandala cosmici, l’evanescente mappa del creato. Tracciati nella sabbia, per svanire, come niente fosse, all’ultimo eco di un simile concerto d’accompagnamento.
Certo, c’è un motivo se da molti anni a questa parte, la gente non inventa nuovi strumenti musicali. Anzi, due. Il primo è quello innato, del modo in cui funziona e agisce la Tecnologia. Tutto si trasforma, col procedere del tempo, e tendenzialmente perde la sua forma materiale. Nell’epoca in cui è possibile mostrare facilmente, sullo schermo di un computer, dinosauri su comete millenarie, o alieni che camminano tra stolidi bovini, perché mai dovremmo ancor produrre il suono primordiale, da metallo, pelli d’animale oppure legno lavorato dai liutai? È molto meglio, RI-produrlo migliorato, in senso digital, sfruttando quel potere che è SIMULAZIONE. Esistono, probabilmente, due persone, forse tre, che udendo il ritmo cadenzato da uno Stradivari Vero, possono affermare con sincerità: “Ah, si sente differenza, anche se manca la potenza!” Per gli altri, noi comuni esseri umani, perché mai affannarsi…Tanto vale, battere sulla tastiera luminosa e mettersi le cuffie del disc jockey, per guidare suoni senza una vera ragione d’esistenza, fino a diecimila decibel d’imponenza. Analogico: phuew! Il passato, giusto?
Di sicuro non è il nostro presente, visto che la blogosfera concorda sul fatto che tutto quello che ricorda lo Yaybahar, è l’effetto auditivo di un “comune” sintetizzatore informatico. Ma il futuro, chi lo sa! Verrà forse un giorno, forse-forse non lontano, in cui la musica sarà finita. Esaurita, kaput. Molto prima del petrolio, dell’uranio, addirittura del gas elio, l’eccesiva saturazione di melodie, endemicamente tutte uguali, ci farà stancare di questa sublime forma d’arte, antica quanto il primo colpo di un sassetto, dato da una protoscimmia sopra il tronco cavo. Tutti quei tamburi, quelle trombe, le arpe ed i violini, gli alti e larghi o bassi pianoforti, gli arpiscordi, i flauti dritti, di traverso e all’incontrario, allora, non saranno che ingombranti orpelli da tenere in umide cantine.
I computer sanno fare molte cose. Ma tra queste, non figura l’apertura di sentieri nuovi…

Il che ci porta alla seconda problematica: il nuovo non è bello, per definizione. Se è bello, non è veramente nuovo. Chiunque può apprezzare, anche senza capirlo nel profondo, il sussegursi magistrale di una sinfonia dell’epoca classica dei musicisti. Ma un bizzarro susseguirsi auditivo, come questo dello Yaybahar turco, naturalmente lascerebbe incuriositi, al massimo. Magari un po’ perplessi. Ci vuole un certo grado di coraggio, per apprezzare immediatamente una musica del tutto sconosciuta. Per non parlar di una soluzione come questa, che prevede la trasmissione delle vibrazioni da lunghe corde fino a dei tamburi concavi, facendoli vibrare minacciosamente. Per una membrana che tale suono lo trasforma, dando luogo a suggestioni degne di un volo fantastico e inquietante. Ed infatti è proprio nella manifestazione di un tale campo della creatività, generalmente, che tali invenzioni trovano immediata applicazione: la cinematografia di fantascienza o dell’orrore.

Waterphone

Così fu per il Theremin di Lev Sergeevič Termen, lo strumento russo che trasforma il naturale campo elettrico del corpo umano in occulti miagolii, come pure per il Blaster Beam (inventore sconosciuto) quell’arnese lungo e strano, costruito con parti di chitarre elettriche, che venne usato da molti registi di genere degli anni ’70 e ’80, oltre che in Star Wars: Episodio II – L’attacco dei cloni (2002).
Senza citare il qui presente Waterphone, l’invenzione eclettica di Richard Waters, da cui prende in parte il nome. Solo in parte, dico, perché dentro a questa tazza monolitica di metallo, talvolta, viene posta proprio l’acqua-water per accentuare ulteriormente il suono mistico di quello che potrebbe essere, come lo Yaybahar per gli strumenti a corda, la maggiore innovazione pseudo-recente nel campo delle percussioni propriamente dette.
Quest’altro nasceva, nello specifico nel 1969, quando il suo inventore ascolta per la prima volta il tamburo da guerra tibetano, nella sua versione maggiormente trasportabile fino ad un college americano. In altre parole, un cilindro di bronzo, con un foro nella parte superiore. E un po’ d’acqua dentro, che modificava i toni ed il riverbero del suono. Dopo un primo periodo di perfezionamento, questa sua versione alternativa con chiodoni a vista, simile a una sorta di litofono, viene ben presto adottata da numerosi registi di Hollywood e la ritroviamo, tra gli altri, in Poltergeist (1982) ed ALIENS  (1986). Nonché, in tempi più recenti, nel primo storico The Matrix (1999) e nell’indimenticabile La Tigre e il Dragone (2000).
Fra tutti gli strumenti bizzarri della nuova onda, probabilmente, resta questo il meno conosciuto dal grande pubblico, eppure il più celebrato dagli esperti del settore, con l’inclusione in prestigiose orchestre, nonché l’esposizione in mostre o musei permanenti. Il compositore Jim Nollman, in collaborazione con la società di biologi americani Interspecies Communication, afferma di aver usato con successo il Waterphone per comunicare con le balene, dando luogo al primo caso di scambio di opinioni tra cetacei ed umani. Fantastico.
Chissà invece chi, o cosa, avrà chiamato Görkem Şen, nella sua torre turca, in bilico tra terra e mare.

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