Il pezzo senza senso. Come il cuore di un motore, ma strano, grande, portentoso. Con parte centrale fatta per girare, liscia e lustra quanto il ventre di una sanguisuga. Lucide sfaccettature da bullone, sotto denti d’ingranaggio diagonali. Sezioni zigrinate trasversali, utili a trasmettere la forza si, ma di che cosa? Quattro avvitamenti contrapposti e perpendicolari, con l’aggancio per…Sbarre che… Niente, non ci arrivo. Eppure, esiste. Eccolo qui!
Le attrezzature fattive tracciano il sentiero per la fantasia. E non c’è macchina migliore, né più complessa, di un braccio robotico per lavorare l’alluminio. La torretta motorizzata che si muove oscillando tra percorsi disegnati da un computer, posto all’estremità di un giogo elettroni. Il blocco intonso che ruota, vorticosamente, sopra l’aggancio di un massiccio tornio. Mentre ad ogni contatto tra le due parti generatrici, scalpello diamantato e ruvida materia prima, pur se splendente, si separano le scorie dell’inconseguenza: cento lunghi trucioli ritorti, fili di metallo senza fine. Né utilità residua, una volta separati. Sarebbe questa, la migliore esecuzione di un progetto ormai davvero collaudato. Il sistema che consiste nel creare grazie all’uso della sottrazione. Tutto serve, tranne tutto il resto. Come gli scultori delle statue greche, fatte in marmo solo successivamente colorato. Loro che dal fianco di un’alta montagna già scorgevano il titanico dio Chronos, la dea della Terra e quel suo figlio Zeus, con tutti gli altri, pronti a manifestarsi da un passaggio di sapienza operativa, quattro colpi di martello, la doppia Z fatta col cesello. Purché ispirata, direttamente dalla mente di costoro. Li aiutava lo strumento dell’osservazione. Oltre a un carro di buoi, usato per raggiungere il laboratorio. E lì giù polvere, schegge, blocchi piccoli e superflui, perché privi di corrispondenza con la sacra verità. Ovvero il corpo umano. Che esisteva già in potenza, in ogni materiale. Ma si manifesta, questa è cosa noto, solo per la forza artificiale della mimési, sospinta innanzi dal supremo desiderio.
Con il procedere dei tempi ingegneristici, la stanza di creazione delle opere dell’uomo si è evoluta, raggiungendo nuove vette di complessità. Ciò che era un tempo una comune abitazione d’ablazione, forse un po’ più grande del normale, si è trasformata in capannone, poi opificio. E infine, fabbrica. Dove cambiano le regole del mondo tecnico, in funzione della scala operativa. È una forma di miracolosa moltiplicazione: in uno spazio tanto grande, si connota la sostanza di partenza, a pochi metri di distanza e un sol contesto. Non più comanda quel progetto, unico e indivisibile, della Cosa da Produrre. Poiché ne convivono diversi; nascosti sotto il vetro ed il metallo; ciascuno supervisionato, separatamente, da uno specialista; assemblato dalla forza pura della scienza tecnica, applicata.
Questa specifica macchina a controllo numerico (altrimenti detta CNC) è un modello top di gamma fuoriuscito dalle epiche catene di montaggio della DMG Mori, storico conglomerato multinazionale tra Germania e Giappone, sapiente compagnia che opera nel campo dell’automatizzazione fin dal 1870. Si chiama CTX gamma 2000 ed ha caratteristiche da capogiro. Motori multipli per un mandrino a 5 assi, con ben 4000 Nm di coppia. Dodici attrezzi di ricambio nell’alloggiamento raggiungibile dal braccio mobile, in tempi calcolati sul 30% in meno di quelli usuali per macchine di questa classe. Controllo a due canali e zona di lavoro ampiamente variabile, a seconda della grandezza del pezzo da creare.
Il tutto, magistralmente raffreddato ad acqua. E mentre scorrono quei fiumi di ricircolo, ebullienti e mefitici all’olfatto (parlo per esperienza) così l’acqua scorre sotto i ponti. Le cose cambiano ma restano…Le stesse?
Ecco un altro pezzo, potenzialmente inutile. Come il componente dimostrativo di apertura, usato solamente per dimostrare le caratteristiche del macchinario, questo oggetto forato e cavo parrebbe una semplice prova dell’artigiano, oppure un puro ninnolo decorativo, nato per pura e soggettiva voglia di creare. Eppure ne hanno trovati oltre un centinaio, in bronzo e pietra, risalenti all’epoca del primo e secondo secolo d.C, nelle regioni settentrionali dell’Impero Romano, soprattutto le odierne Germania e Francia.
Questi dodecaedri sfaccettati, ormai da tempo, lasciano perplessi gli archeologi e conducono ad ogni sorta di teoria, più o meno probabile all’istinto. Qualcuno li associa al culto indiano di Mitra, dio del Sole, giunto in Occidente per il tramite dei contatti con la Persia. Sarebbero quindi ausili in qualche rito, oppure simboli domestici, affini alle statuette del focolare, i Lari che rappresentavano lo guardo critico di chi era venuto prima. Altri ci vedono i componenti di un bizzarro gioco, ormai perduto, quasi si trattasse di una sorta di dadi stravaganti alla D&D. Ma di certo erano troppo articolati, come forma e metodo realizzativo, per poter servire solo a questo! Soprassediamo, inoltre, sugli alieni che lasciavano piccoli pegni e le altre strampalate idee…
Il fatto, a mio parere, è che la complessità delle forme chiama questo, soprattutto: maggiore complessità, in un infinito ciclo ricorsivo di miglioramento. Senza il fabbro che batteva sull’incudine, non avremmo avuto un giorno le automobili. Senza l’abaco, non sarebbe stato messo assieme questa mente artificiale del computer, che comunica attraverso gli eteri del mondo. Così ciascun prodotto di sapienza genera, in potenza, un ulteriore seme di creazione. La meccanica ingegneristica, generalmente, viene fatta risalire alle prime catapulte e le baliste dei Romani. Quasi che il bisogno di sconfiggere il nemico, con conseguente spargimento di sangue, fosse più importante di tali e tanti progressi urbanistici, civili e architettonici. Gli antichi davano i natali ad ogni tipo di creazione, esattamente come noi. Ed avevano le loro macchine, pure se più semplici, naturalmente.
Tra le teorie sul dodecaedro romano trovo interessante, in modo particolare, quella di TheMartinhallett, qui sotto messa in video per il pubblico piacere. Lui, che il pezzo l’ha osservato a lungo e pure riprodotto (grazie all’uso di una stampante tridimensionale, ma quella è tutta un’altra Storia) ha notato una strana successione dei diversi fori contrapposti: piccolo-medio-grande-medio, da una parte. Ed il contrario dall’altra; proprio come…Le dita della mani?! Eureka! sembra di sentire quell’esclamazione ed ecco la ragione. Questo gizmo altro non sarebbe, dopotutto, che un telaio per creare i guanti. Ipotesi tra l’altro compatibile con il clima freddo delle regioni di ritrovamento, guarda un po’! Si, scienza, la presenza di un’ultima coscienza. Che le dita fredde fanno male. Ciò che permette a un cubetto senza senso, di trasformarsi in macchina. La fonte di ogni cosa utile (oltre i limiti della natura).