Poter dire: “Pietra, giaci!” Ed essa giacque, per un tempo comparabile all’eternità. Sarebbe a dire due minuti, pressapoco, dal momento in cui allontani le tue mani. Erosione? Distruzione, esplosione? Nulla di tutto questo, solamente quella forza che la lega, fin dagli albori più remoti della sua esistenza, al nucleo geomagnetico del globo. Non importa che sia fatta di metallo, silicati, di granito oppure feldspar di labradorite, gravità comanda, tutto quanto, e poi la pietra, da principio. Che non vola. Eppure, può librarsi sulle tristi consorelle: ecco come.
Michael Grab, alias Gravity Glue (colla-gravitazionale) è l’unico serio praticante al mondo di una sua speciale forma d’arte, che è anche un gioco bambinesco, però proiettato fino alle finali conseguenze, i limiti di quello che sia “possibile” o “giustificato”. Lui si reca presso i freddi fiumi della parte ovest del Colorado, a ridosso delle Rocky Mountains (vive presso Boulder Creek) dove gli inverni ancora possono conoscere la neve, il ghiaccio e le alci viaggiatrici. E in quelle acque fruga, lungamente, fino a ritrovare un lampo, il colpo dell’ispirazione. Assieme ad un bel pezzo di Pianeta, liscio e duro sasso, che si presti alla realizzazione del pensiero. Più altri due, quattro, sei compagni di quell’altro, messi tutti assieme da una parte. A quel punto, si comincia. Perfetta unità di tempo, mezzo e luogo: lui soltanto e le sue mani, in mezzo al flusso di quell’acque, appoggia il primo masso in miniatura. Rigorosamente in verticale, con sopra un altro e un altro ancora. Così, mentre la corrente si divide per l’effetto dell’intruso e del sopruso, lui continua e accresce la sua torre.
Può sembrare poca cosa, ma non fatevi trarre in inganno. Qui non stiamo parlando di mattoni ortogonali o precisi materiali sfaccettati, da comporsi come pezzettini delle costruzioni. Queste sono pietre inselvatichite, asimmetriche, stondate. La furia stolida degli elementi, che le ha avute in carico per molti giri del millennio, le ha ridotte a vere e proprie pillole del raffreddore, tanto sono ellittiche talvolta, oppure a putiféri di triangoli decisamente irregolari, in ripida e tremenda compenetrazione. Sposarle fra di loro, non è facile. A noi comuni esseri umani, con un senso d’equilibrio nella media, non ci verrebbe mai nemmeno in mente. Ma Michael Grab opera su di una lunghezza d’onde differente. Come dichiara in lettere MAIUSCOLE nella sua dichiarazione d’intenti, per lui TUTTO È POSSIBILE e ogni pietra ha una serie di minute asperità, impercettibili avvallamenti, che possono agire da TRIPODE. Quello strano gesto, tanto affascinante, sarebbe dunque l’unica maniera per trasferire la natura incontaminata, eternamente senza tempo, nell’ADESSO/NOW. Affinché giaccia, brevemente ma per sempre nella mente, prima di tornare quel che Era!
Le opere di Michael Grab possono essere inserite in tre categorie, sostanzialmente: la già citata torre, il ponte o la città. Della prima abbiamo già parlato. Si tratta della modalità maggiormente condivisibile, poiché altro non è che l’effettiva messa in opera del gesto più spontaneo. Quello del bambino, con un sasso per ciascuna mano, che tenti di metterli assieme in qualche modo. Alcuni dei suoi pinnacoli migliori sono grossi ed imponenti, con un’altitudine che sfiora pericolosamente i due metri. Altre sono brevi e perfetti, come un haiku delle rocce, con tre soli componenti; ma fantastici. Pezzi di un tutto inesprimibile, perché il primo sassetto, magari, è tondo e piccolo. Il secondo macroscopico e squadrato. Il terzo ellittico ed oblungo. Eppur non si muovono! Alla fine, come coronamento, prende l’acqua a piene mani e ce la getta sopra. Una chiara prova ingegneristica di resistenza, alle immancabili sollecitazioni accidentali.
Il ponte, invece, si sviluppa in senso orizzontale. Si tratta di una serie di pietruzze appositamente selezionate, piatte e larghe, che vengono disposte a partire da due piani di partenza, dall’inclinazione approssimativa di 45 gradi. In quel caso, l’obiettivo chiaro è quello di raggiungere la precisa estensione dello spazio disponibile, tratteggiando nell’aere la forma di un perfetto arco. A quel punto, scaricando il peso verso i lati, la struttura starà, su. Ad ulteriore coronamento, se l’umore è quello giusto, l’autore includerà qualche vezzo aggiuntivo, come due sassetti sulla chiave di volta, un altro paio prossimo alle estremità. E così ancora, così via…
Quindi, qualche volta, viene l’occasione. Quando Michael si sveglia, una dì di primavera e dice: “Oggi è la giornata”. Allora si reca presso quelle argentee rive. Chiama qualche amico, un pubblico per l’occasione, il cameraman ufficiale. E si scatena, costruendo una foresta di pilastri. C’è una scena, tra i suoi video di YouTube, in cui un gruppo di bagnanti naviga sul fiume usando grosse camere d’aria. Tutto attorno, pietre e pietre e pietre, delicatamente poste l’una sopra l’altra. Forse, chi lo sa, il gioco consisteva nell’evitare di farle cadere! Una particolare realizzazione, difficile da classificare, è stata la sfera di pietra costruita a novembre del 2013, realizzata sullo sfondo di uno scenario stranamente desertico, tra i distanti raggi del tramonto e la foschia. Benché il risultato, alla fine, non sia stato quello desiderato e sia venuto tutto giù, l’ambizione fu magnifica. E il momento memorabile.
Le opere del suo catalogo sono divise per stagione, quasi ad ulteriore riconferma di un punto di contatto privilegiato con il mondo delle cose primordiali. Come artista, sotto il nom de plume Gravity Glue, l’eclettico equilibratore ha ormai ottenuto un successo su scala globale. Con un ampio riscontro in termini di social network (oltre 35.000 like su Facebook) oggi partecipa a numerose esposizioni negli Stati Uniti, ed occasionalmente anche all’estero, in prestigiose location, tra cui il castello di Inverness in Scozia. Tra le sue idee più originali spicca una forma di curiosa esibizione da palcoscenico, durante cui depone le sue pietre, in abito elegante e accompagnato dalla soave musica di un pianoforte.
Ed è bello e commovente, un momento straordinario di meditazione collettiva. Eppure, forse, meno puro. Questo tipo di gesto, spontaneo e significativo proprio in quanto umano fra la non-umanità, se portato avanti in mezzo al nulla ha una ragione più profonda. È un modo di comprendere ciò che ci circonda. Prendere una pietra, girarla tra le mani, nel silenzio dell’acqua che scorre rumorosamente. Tastare ogni centimetro di quella cosa, inerte. Per dargli l’ordine fattivo di restare quel che è. Dove si trova: “Non cambiare, sassolino, resta sempre quel che sei!” Affinché esista un DOVE assieme al tuo PERCHÈ.