Ci vuole tempo per costruire un edificio che resista all’incedere de secoli, la macina pericolosa del progresso. Tempo di pensare, costruire, soprattutto ricordare. Che quel determinato luogo, si, è importante, perché simboleggia il senso della vita stessa. E così anche la musica, del resto. Fra i più antichi pellegrinaggi europei, il Camino de Santiago era un viaggio spirituale e religioso che i fedeli affrontavano, fin dall’epoca medievale, avventurandosi per molti giorni attraverso la terra frastagliata oppure il mare tempestoso, fino alle coste della Galizia, nella Spagna nord-occidentale. Quindi percorrevano le strade iberiche segnate dai re di Asturias, nell’ottavo secolo, e dal vescovo di Iria, Teodomiro. Colui che studiando e ricercando, attentamente, presso un antico cimitero di epoca romana disse: “Queste sono le ossa di San Giacomo Maggiore, apostolo, tornato da Gerusalemme per pregare. Orsù, rendiamogli onore”. Con alte mura e il buon sudore della fronte! Un giorno, qui risuoneranno voci d’angelo e le trombe dell’Apocalisse.
Venne deciso, dunque, che lì sorgesse la divina Cattedrale: era il 1075 d.C e ci vollero ben sette secoli, affinché fosse veramente completata. Ma per certi versi, ce ne vollero anche nove. Poiché la musica divina non proviene dai sinceri sentimenti e soltanto quelli. Serve la chiave inglese, oltre a quella di violino. La sapiente symphonia. Un giusto grado di approccio ingegneristico, come quello che ebbe a portare qui a Santiago, soltanto nel recente 1977, l’organo a canne Mascioni opus 1010, con trasmissione elettrica, tre tastiere per un totale di 183 note ed una pedaliera a raggiera, con altre 32. Perfetto. E…Prima? C’era stato, dicono, un organo più piccolo, di epoca e di stile barocco, parzialmente smontato, quindi utilizzato come involucro per quello nuovo. E prima ancora?
Quando il pellegrino giungeva, a partire dal XII secolo, presso la vasta e poderosa casa del signore, doveva attraversare un alto portale, affinché i suoi peccati fossero dimenticati, come avveniva per chi raggiungesse Roma, oppur la Terra Santa d’oltremare. Veniva chiamato questo sacro varco: il ´Pórtico da Gloria, e ricoperto di elaborati bassorilievi in pietra. Tra di essi, figurava al centro proprio lo strumento musicale che è venuto prima, l’organistrum. Era lungo un metro e mezzo. Era simile a un attrezzo da lavoro. Due ecclesiastici, servivano, per manovrarlo: uno spingeva i tasti, l’altro ruotava la pesante manovella, ancora e ancora, senza mai stancarsi.
E come le tecniche messe a frutto nella costruzione cattedrali, molto prima del loro completamento, filtrarono verso l’architettura laica, così avvenne per quell’invenzione musicale. Che rimpicciolita nelle dimensioni, filtrò fino in Francia, poi Inghilterra, l’odierna Germania e anche l’Italia. Come vielle à roue, uno strumento, dalla tipica forma di liuto (qualcuno dice che ricordi un po’ una nave) e un certo numero di corde, vibranti della voglia di produrre il Suono. Ma come spesso capita, ciò che conta il metodo. Non certo l’intenzione!
Aveva molti nomi. Da noi la chiamavano, durante l’epoca del Rinascimento, lira tedesca, prima che s’imponesse il termine suggestivo di gironda, o ghironda, ancora in uso tra gli specialisti del settore. Nonché tutti coloro che hanno la capacità di farla gorgheggiare. Mentre al Nord di Oltremanica, terra pragmatica di pastori e di mercanti, gli inglesi coniarono il buffo binomio hurdy-gurdy, con probabile assonanza onomatopeica, o piuttosto un riferimento all’hurly-burly, un certo tipo di gozzoviglia sregolata. Lì usavano suonarla, molto spesso, assieme con le cornamuse, sfruttando la potenza innata del suo suono. Questo particolare strumento fu presto associato, soprattutto nelle terre d’Occitania, al vagabondare degli antichi menestrelli, idealmente ciechi, che la usavano per accompagnare piccole rappresentazioni da taverna, di leggende o storie popolari. In tale particolare guisa, lo strumento venne esportato fino all’Est dei popoli slavi, diventando un simbolo dei Kobzars, una classe sociale di fecondi musicanti, spesso associata ai vagabondi senza fissa dimora, e per questo duramente perseguitata, specie durante l’epoca del comunismo.
La leggenda nata dall’organistrum primordiale, ad ogni modo, non accennava ad esaurirsi. Nel diciottesimo secolo, sull’onda del Romanticismo e della riscoperta delle usanze popolari, tale oggetto musicale acquisiva un nuovo grado di nobiltà, facendo la sua comparsa nei saloni Rococò della cultura e del potere, anche grazie all’opera di alcuni insigni compositori. Tra questi, il più famoso resta Nicolas Chédeville (1705 – 1782) con il suo – Il pastor fido, che egli ebbe addirittura il coraggio di pubblicare sotto un falso nome: quello, guarda caso, di Vivaldi. La forma dello strumento, in quell’epoca, fu trasformata: piuttosto che un liuto, ricordava vagamente una chitarra. Ancora niente, rispetto alle remote trasformazioni del Tempo…
La caratteristica principale della gironda era naturalmente la sua ruota collegata alla manovella. Proprio utilizzando quest’ultima per strofinare le corde, al posto del comune archetto da violino, lo strumento guadagnava la capacità di produrre note multiple allo stesso tempo. Almeno una continua e fissa, a fare da insistente sottofondo. Un certo numero, anche in contemporanea a scelta del suonatore, comandato da pulsanti, per la melodia. Ed un’altra, assai particolare. Venne aggiunta infatti l’innovazione, attorno al XV secolo di un ulteriore tasto sotto il corpo della cassa di risonanza, in grado di controllare un elemento ligneo detto “il cane”. Quest’ultimo avvicinava alla ruota, quando ritenuto necessario, una corda sbilanciata ad arte, che produceva una sorta di bizzarro ronzio, come il richiamo di un insetto. Sarebbe stato proprio questo, nei secoli, il marchio di fabbrica di un vero menestrello armato di gironda.
Ma i tempi cambiano e con essi le necessità. A seguito dell’invenzione della registrazione fonografica (1877) si scoprì che quasi nessuno degli strumenti a corde allora disponibili, con tali e tante delicate vibrazioni, fosse in grado di produrre abbastanza decibel da muovere la puntina elettrica di registrazione, restando impresso nel cilindro o disco rotativo. Ciò includeva, ahimé, persino la gironda, che aveva saputo sonorizzare tante sale da concerto, feste di paese e addirittura vaste cattedrali. Ci si rivolse ancora una volta, dunque, alla capacità di chi sapeva fare, ed inventare: nacquero così, i violini di risonanza. Una nuova classe di strumenti, generalmente metallici, in grado di amplificare all’inverosimile quel caos desiderabile, l’armonia che nobilita le orecchie umane.
Tra questi, come non citare, sia pure brevemente, l’affascinante violino di Stroh? Invenzione di un ingegnere elettrico londinese, che ebbe a brevettarlo nel 1899. La sua caratteristica era di disporre, invece che della tradizionale cassa di risonanza lignea, di una vera e propria tromba di amplificazione. Quella voce artificiale rinasceva, dunque: squillante! Allegra, petulante… Un vero segno dei tempi e della maniera in cui si fa di necessità, virtù. Rumore forte non vuole dire una mancanza di finezza sopraffina. Come dall’insieme di un dipinto grande non svanisce, senza colpo ferire, l’attenzione ai minimi particolari. Purché l’artista…
1 commento su “Amplificati dalle corde di strumenti inusitati”