Certe mattine, dopo una notte trascorsa tra le pieghe oniriche dei sogni, ti risvegli con la musica dentro al cervello. “Hey, Jude” Ti sembra già di sentire “Non portare tutto il mondo sulle spalle, it’s a fool who plays it cool” e se yesterday tutti i tuoi guai erano così lontani, oggi sono arrivati, per restarti accanto e toglierti la pace. Di pensare. Quindi tanto vale mettersi a mangiare! Si, ma cosa? Cosa, voglio dire, se non il dolce per purissima eccellenza, la cosa più semplice che abbia mai coperto superfici antiaderenti. Da una rigida padella, gialla morbida eccellenza, da coprire con il miele, con il sole, con un mare in tempesta; di sciroppo d’acero, possibilmente, come fanno i canadesi, che il martedì prima di Pasqua, loro non lo chiamano: Grasso, bensì Pancake Day. Chi meglio di quel popolo, poteva ispessire una comune crêpe. E renderla indimenticabile, ai bambini di ogni nazionalità. Sopratutto delle Americhe, dove mancano i cornetti con la cioccolata, ahimé.
Nathan Shields, che si autodefinisce some guy with his kids (il tizio coi marmocchi) non è certo il primo cuoco ad aver scelto di abbellire i propri dolci. E i reality tematici della TV satellitare sono pieni, ormai da tempo, di architetti della glassa, scultori del fondant, filosofi creatori dello zucchero più stravagante. Abbiamo visto torte a forma di castelli. Cattedrali, alberi o montagne. C’è stata quella fatta come un carroarmato (per riaccogliere il soldato di ritorno) quella che sembrava un taxi (festa del neo-pensionato) e un’altra, uguale uguale all’università di Harvard, campo da football incluso. Eppure dai diamanti spaccadenti, Lucy in the Sky, non nasce veramente nulla. Così alla fine dell’apocalittica ultima cena, con dozzine d’invitati allucinati, divoratori dell’equivalenza commestibile di cingoli, pneumatici e palloni, restava sempre un certo di tipo di fame; che non era proprio fame, ma piuttosto…Un languorino spirituale. Di ritrovare il gusto semplice dell’immediatezza, come nel sapore, anche nell’arte di abbellirlo. Da mangiare con gli occhi e guardare con la bocca, evviva la sinestesia! E le orecchie?
Strano. Che mentre il cibo riesca ad evocare ogni tipo d’immagine, purché venga preparato da un’artista ragionevolmente in grado, la musica sia destinata a rimanere solo un sottofondo dell’evento. Quasi che un tale susseguirsi di note sinfoniche, come onda che disturba gli eteri invisibili, sia oltre le tre semplici e comuni dimensioni. Impossibile, da catturare nelle forme di una torta, a meno che questa non nasconda, nel suo interno, gli altoparlanti di una radio senza fili. Però, ecco, costui ci mostra una seconda via: evocare per associazione. Usare le immagini, come veicolo del suono. Tutt’era scegliere i soggetti giusti! And when the brokenhearted people / Living in the world agree / There will be an answer, let it be.
Viva la revolución! Non c’è gesto più liberatorio, a questo mondo, di mettere in padella burro, farina, zucchero e uova. Per vederle, nel giro di una canzone, diventare un tutto solido e gustoso. Ci sono dolci ultra-dimensionali, come quelli già citati, oltre i limiti dell’opulenta ragionevolezza. La maggior parte, invece, hanno soltanto larghezza, profondità ed altezza; quest’ultima, in particolare, può svilupparsi in piani, come un condominio, oppure in modo geologico, a mò di panettone lievitato.
E poi c’è il pancake, altrettanto particolare, a suo modo. Un cibo assolutamente bidimensionale, per questo tanto amato, nell’odierno mondo delle immagini. Anche perché un quadro, per quanto raffinato, altro non è che l’alternarsi di zone di luce e d’ombra, chiaro-scuro, chiaro-scuro. Il susseguirsi, in questo caso, di diversi tempi di cottura. E allora, arise my pancake, take these broken wings and learn to fly. Basta matite. Basta pennarelli. Basta una tasca da pasticcere, da usare attentamente, come un contagocce. E la straordinaria ricetta operativa nata nella cucina straordinaria di Nathan Shields. Davvero non c’è limite alle invenzioni dell’ingegno umano. Con l’obiettivo probabile di guadagnare sulla sua creatività, l’autore ha addirittura concepito uno strumento pantografico in legno, usato per creare improbabili pancake geometrici, dalla lampante simmetria. Certo, occorre muoversi in velocità. Per creare qualcosa di tanto complesso, si rischia inevitabilmente di bruciare tutto quanto (ed anche lui ci va vicino). Il progetto dell’attrezzo, per chi fosse interessato a costruirselo da se, è in vendita per soli 4 dollari e 50.
I pancake sono tra i dolci più antichi ancora apprezzati ai nostri giorni. All’epoca classica dei Greci, venivano detti τηγανίτης (tēganitēs) dalla parola tagēnon: tegame. Non chiamatela soltanto: padella! Venivano fatti con olio d’oliva, miele, farina e latte cagliato. Chiaramente, i popoli d’Europa non avevano lo zucchero. Nè tantomeno, il liquido dolce che si ottiene bollendo la linfa dell’albero nazionale del Canada, già noto agli indiani irochesi, fin dai tempi immemori della storia pre-coloniale.
Oggi, traviati dall’invenzione tecnologica di un dottore ottocentesco e quacchero convinto, i croccanti, multiformi, iperreligiosi e (si dice) anti-masturbatori corn-flakes, rischiamo di dimenticare quel sapore conduttivo di un supremo senso di soddisfazione auto-gestita. Che chiunque può creare, in due minuti, nella pace spirituale della propria casa. E che giovani artisti di ogni età possono abbellire, se lo vogliono, grazie all’abilità delle proprie due mani. Con pantografo. Senza pantografo. Purché non siano già diventati ciechi, come temeva sinceramente quell’insigne John Harvey Kellogg, giusto qualche tempo fa.