È un gran problema! E che insofferenza, quale impaccio, una tremenda scocciatura. Che disagevole disturbo, dover lentamente premere sull’acceleratore, poi sul freno e ancora e ancora, quando si hanno settecento fastidiose macchine, tetramente ferme, tra la propria posizione e il sospirato punto dell’arrivo. Casa-lavoro-casa-lav-FRENA! Ahi! Sarebbe un’epica Odissea, se non dovesse ormai ripetersi, in certi periodi, praticamente tutti e cinque i giorni della settimana. Ma se tutti si chiedono: “C’è una vera soluzione?” Questo non significa sia giunto l’attimo di stendersi e crucciarsi, occupando il proprio scarso tempo libro. Che più che a librarsi, serve a leggere, perché la conoscenza marca il punto fermo di liberazione. Finché la fantasia, finalmente, frutta un modo per chi ha fretta di finire la filiera. Parlavano, gli storici, di un antico modo di portare a compimento la missione: avere più fiducia nelle cose. Lanciare una moneta, sette volte sette, certi che cadrà di taglio. Può succedere, anche se è raro. Come in un sogno, dozzine di automobili si approcciano all’incrocio. Nessuno frena eppure, stranamente, tutto si risolve per il meglio.
La scena qui presente l’ha creata il giovane regista argentino Fernando Livschitz, con il suo ultimo cortometraggio RUSH HOUR, un’allegra alternanza di possibili disastri scampati, sfioramenti da cardiopalma e biciclette sregolate. È il trionfo dell’efficienza sulla logica, dell’allegoria sul candido realismo. Documenta, senza realmente dimostrarlo, come tutto sia possibile quando, strano a dirsi, collettivamente necessario. Il fatto è questo. La città moderna: un sistema. Che prevede l’ordine, per funzionare, ma non per questo lo richiede. Ai tempi dei Patriarchi biblici col pastorale, quando un esodo veniva attentamente predisposto, ciascun cammello, carro e casa mobile si guadagnava un ruolo. Primo-della-fila, poi secondo e così via. Non c’era altra direttiva, che lasciare i lidi inospitali del deserto egiziano, per giungere a remota destinazione. Persino il Mar sottile, Rosso come il sangue dei gravosi sacrifici effettuati, altro non era che un semaforo, per una sola volta, verde, finalmente. Quella giusta, quella santa e conduttrice di salvezza. Poi vennero i filosofi di un’Era Classica, perduta. E con essi quella rigida astrazione che dichiara: “Ciascuna società si fonda sulla collaborazione” postulando che “La convivenza è giusta e naturale, perché nasce dal bisogno di sostegno e protezione”. Era così, nell’età dell’Urbe senza Tempo, che si gestiva il traffico. Con automatica solerzia. Con scudiscio e con fiumane di sesterzi. Gli opulenti patrizi sui cavalli prima dei plebei appiedati e soltanto dopo, trascinando le catene, e le anfore di vino e le preziose cornucopie e le carriole cariche di ottimi mattoni e le aspettative disilluse di giornata e l’infelice senso dei minuti, loro. Gli schiavi, un’altra volta. A cupo beneficio della società.
L’individualismo, l’automobilismo. Oramai elevàti, al di sopra dell’originario atto di fede verso l’equilibrio dei fondamentali presupposti, i cultori della psicanalisi (altrimenti detti: i “moderni”) inseguono perennemente il proprio ego. Per le brusche discese, oltre le curve e gomito e dentro affollatissime rotonde, dove ogni guidatore si sente l’unico padrone del suo Fato. Ciascun GPS o cellulare con navigatore, ugualmente certo che l’ora di arrivo sia imminente. E se avessero ragione…Tutti quanti?
Certo, un simile filmato fa impressione. Lo stile iper-realistico, completo di movimenti accidentali della telecamera e maldestre zoomate, fa pensare a certe scene provenienti dalle grandi metropoli dell’Asia o dell’Africa, in cui spesso il codice della strada, piuttosto che un dogma inviolabile, è piuttosto una sorta di suggerimento. Come un canovaccio, da seguire o meno sulla base dell’umore di giornata. C’era stato il caso internazionale di quel celebre video in time-lapse, girato presso Addis Abeba, in cui un enorme incrocio, impossibilmente privo di semafori o segnali, diventava quasi una sorta di carambola letale. Veniva da chiedersi, alla fine, come fosse possibile una simile organizzazione: quasi che il disordine totale, alla fine, fosse una forma d’ordine supremo. Forse avevano ragione quei seguaci dell’antico wu wei cinese, inesprimibile, indescrivibile, privo di forma e di sostanza, il Tao…
Nella produzione artistica Livschitz, diventato celebre con la sua etichetta creativa Black Sheep Films, ricorre questo tema esoterico della città che si trasforma. Accompagnato, forse per la prima volta, da un sincero senso di ottimismo. Che si riflette da ogni angolo della questione, a partire dalla colonna sonora, sempre orecchiabile, leggera. Fino alle tematiche un po’ fantascientifiche, super-fiabesche nella loro stregonesca progressione.
Si osservi, per comparazione con il primo video, questo New York Park (2012), certamente più conduttivo dello stile abituale del regista. Che ci mostra una Manhattan senza freni, in cui Times Square, all’improvviso, si ritrova sovrastata da una grande ruota panoramica (beccati questa, Londra!) E gli alti piloni del Golden Gate, oltre a sorreggere quel traffico dannato, fanno da perno per una fantastica altalena mulinante. Con montagne russe che scorrono tra i torreggianti grattacieli, mentre la cima dello stesso Chrysler Building, universale simbolo dell’Art Decò, si arricchisce di una giostra di prosaici seggiolini volanti. I cosiddetti calcinculo. Ciò nasce da una fonte, sempre quella….Il computer, lo strumento del demonio. Ciò che permette, a chi ha voglia e capacità, di realizzare la propria visione a partire da poligoni, una piccola manciata di vettori. La tecnologia onnipresente che ci connota e caratterizza i principali attimi della nostra giornata. Di certo, in un futuro non lontano, automobili senzienti ci faranno da infallibili famigli. Già ci sono i metodi, gli arnesi! È soltanto un balzo piccolo, quello che ci manca per cambiar le regole dell’ora più infelice. Dormendo tranquilli, su sedili reclinabili, faremo fare a Google, ad Apple, a TomTom. Allora sarà possibile tirare un gran sospiro di sollievo, ad osservare certi vortici di presunta perdizione, come l’incrocio senza semafori di Addis Abeba. Per qualche anno, almeno…
L’ora di punta: un futuro Luna Park. Le macchine del mondo, idealmente, non possono sbagliare. E poiché da quello nascono, ovvero un’idea, nulla è più sicuro dell’assenza-di-controllo umano. Sfrecciare a gran velocità dentro affollati centri urbani. Attraversare la strada senza guardare a destra, né a sinistra. Finalmente! Un sistema è sempre infallibile, purché computerizzato. Addirittura, gente! L’epoca in cui il traffico si giovava dell’assenza d’individualismo sarà dunque di ritorno, grazie a soluzioni semplici, di alto livello positronico. Affidiamoci dunque a codeste cose robotizzate che, per loro stessa concezione, sono prive di una propria volontà. Come erano gli schiavi, nella mente degli Egizi e dei Romani. Finché un giorno, qualcuno non si ritrovò costretto a porre la terribile domanda: “Chi di voi è Spartacus?” Scoprendo, suo malgrado, che ce n’erano milioni!