Finché non giunsero alla forgia di Damasco

Forgiare un martello
Torbjörn Åhman forgia un martello da forgia del peso di circa un Kg e mezzo

Ogni forma di tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. E come Arthur C. Clarke, l’autore di Odissea nello Spazio, ben sapeva questa cosa il Grande Yǔ, semi-mitico fondatore dell’antichissima dinastia cinese degli Xia (XXI-XVI secolo a.C.) e primo fabbro fonditore nella storia dell’umanità. Non a caso, tra i suoi molti titoli spiccavano traforatore delle montagne e il minatore felice che bonifica la terra. Secondo la fondamentale opera Memorie di uno storico, scritta dagli studiosi Sima Tan e Sima Qian durante il regno molto successivo dell’imperatore Wu (140 – 87 a.C.) questo grande civilizzatore aveva ricevuto in forma di tributo, dalle nove province del suo regno, altrettanti carichi di un prezioso metallo: il bronzo, fondamento delle arcaiche civiltà. Non contento di impiegarlo solamente per forgiarne umili spade o zappe, l’eroico governante fece dunque portare una significativa parte del materiale all’interno della sua officina personale. E proprio in tale luogo, lavorando giorno e notte per un tempo imprecisato, ne trasse nove enormi calderoni a tripode, riccamente decorati, ciascuno del peso di 30.000 Jin (7 tonnellate e mezzo). L’aspetto maggiormente affascinante di questi giganteschi oggetti rituali, destinati a diventare il modello dell’intera produzione bronzea della Cina antica, era il modo in cui presentassero dei fregi geometrici, e figure di draghi o altri esseri mitologici, non semplicemente realizzati a bassorilievo. Bensì tratteggiate in tre dimensioni, attraverso l’incorporamento sulla superficie metallica di una diversa qualità di metallo, con caratteristiche e colorazione in assoluto contrasto. È soltanto naturale, in un mondo che si perde tra le nebbie occulte della storia, identificare in un tale maestro dell’ingegneria il principio ultimo della divinità.
Nell’antichità d’Occidente, tuttavia, non siamo mai stati governati da un grande forgiatore. La civiltà greca, tra i suoi molti immortali, celebrava l’epica opera del dio Efesto, figlio di Ares del conflitto armato, e di Era, la personificazione femminile della Terra stessa. Egli aveva costruito, nella sua fucina sotto l’isola di Lemnos, ogni sorta di stupenda meraviglia: il carro del Sole, l’arco di Apollo, i sandali di Ermes, addirittura lo scudo del grande Zeus, ovvero la mitica Egida in grado di scatenare di tempeste. E inoltre riforniva di armamenti, fin dall’epoca della guerra di Troia, i principali semi-dei e tutti gli altri eroi dei piccoli e insignificanti umani. Era un genio e un fenomenale inventore, in grado di costruire, secondo alcune tradizioni, figure antropomorfe nel metallo e nella pietra, in grado di muoversi e parlare, veri e propri robot dei primordi, anticipatori dell’androide asimoviano. Ma anche un bruto sregolato, che venne cacciato dall’Olimpo dopo aver tentato di stuprare la sapiente Atena, precipitando lungo una catena fin dentro le viscere del mondo. Si parla sempre del creatore e dei suoi maggiori successi e fallimenti, dimenticandosi le umili origini del suo mestiere. Prima del primo fabbro dell’intero universo, non esistevano nemmeno gli strumenti del mestiere: nessun incudine o tenaglia, soltanto il fuoco eterno e periglioso. Persino il martello, con cui battere insistentemente il canto ritmico della tecnologia, era soltanto un aleatorio sogno nella mente dei sapienti.

Tra tutti gli strumenti che è possibile forgiare nel metallo, nessuno è tanto semplice, e puro, quanto la testa usata per colpire a fondo e dare forma alle eccessive prominenze della cose. Un oggetto con l’unico scopo di essere pesante, per sua stessa natura, non ha bisogno di ricorrere a particolari soluzioni tecnologiche, complesse leghe o componenti. È letteralmente un billet, quello che in italiano definiamo pacchetto, della materia da plasmare, solamente stondato ai bordi e perforato con un cuneo, per poter trovare la collocazione in cima a un manico, generalmente in legno. Ciò non toglie che possa presentare finezze o forme assai particolari, segni inconfondibili di versatilità Osservando Torbjörn Åhman nel video di apertura, mentre costruisce il suo primo martello da forgia, si intuisce un fatto di fondamentale importanza: soltanto i grandi, tra i maggiori fabbri della storia, ebbero la voglia o la necessità di assemblare i propri stessi attrezzi. Tutti gli altri, semplicemente, li acquistavano da terze parti.

ascia

Un colpo al cerchio e uno alla botte: uniformare non è l’unico dei gesti di un qualsiasi tipo di artigiano. A volte occorre separare i confini stessi tra gli stessi atomi del mondo, interponendovi una dura e sottilissima barriera. Stiamo parlando, se non fosse chiaro, delle lame affilate, la più terribile, ed al tempo utile, invenzione di coloro che sapevano plasmare il bronzo, poi il ferro e infine l’acciaio, tanto maggiormente in grado di resistere all’impiego nei maggiori campi di battaglia. Osservando l’abile mano di John Neeman, dell’officina Autine Tools, si riesce ad intuire come potesse prendere forma un simile dispositivo di separazione atomistica, attraverso un procedimento virtualmente invariato da circa un millennio, e forse anche di più. Il suo prodotto, questa volta è un’ascia, ma non una fatta come le altre. Si tratta infatti di un dono per il sito web Forestry Forum, che gli rimase vicino a seguito di un incidente, aiutandolo anche finanziariamente. Per metterla assieme, dunque, lui sta usando un procedimento non dissimile da quello del Grande Yǔ, usato per unire due diversi tipi di metallo: l’agemina, dal grande valore decorativo e funzionale. In questo caso, tra il construction steel, della varietà normalmente impiegata nell’edilizia, e il più prezioso acciaio legato, con una percentuale maggiormente vantaggiosa di carbonio. In grado di tagliare tronchi, come burro. E teste (di ponte) neanche fossero salate noccioline.
Di nuovo, come per la produzione del martello, uno dei momenti maggiormente delicati è la realizzazione del foro, sulla testa ancora solamente abbozzata dell’attrezzo, il quale tenderà a sformarsi e dovrà essere riallargato durante l’intero corso della lavorazione. Finché ad un certo punto, con l’opera vicina al completamento, la parte anteriore dell’oggetto verrà portata a biforcarsi in una sorta di doppio lembo, all’interno del quale troverà posto il pacchetto di acciaio legato. Quest’ultimo quindi, una volta abraso, terrà il filo meglio di qualunque alternativa. Soltanto il dio Thor era abbastanza forte da potersi accontentare della testa dura di un martello, per poter schiantare tronchi e serpi e figli dell’aspro continente di Jötunheimr. Tutti gli altri preferivano tagliare, per passare oltre.

Acciaio di Damasco

Avrete certamente notato, durante le fasi iniziali della lavorazione dell’ascia, come Neeman si preoccupasse di cospargerla di una curiosa polverina bianca. Non era questa una polvere magica, ereditata fin dall’epoca dei grandi imperatori, ma una sostanza chimica ben precisa, ricavata dall’elemento boro e il sodio. Prende il nome di borace veneziano, dall’unica città europea che seppe dimostrarsi in grado di produrlo, grazie alle testimonianze e i viaggi esplorativi dei suoi molti naviganti. Tra cui Marco Polo, che di certo lo conobbe alla corte dei molti potenti d’Oriente da lui visitati, a cavallo tra il tredicesimo e quattordicesimo secolo d.C. Questo cristallo bianco, oggi un frutto dell’industria chimica, una volta lasciato a seccare all’aria si trasforma in una polvere benefica per la siderurgia, che rende l’acciaio maggiormente malleabile e lo priva di ogni impurità. Venezia è unica, per i suoi valori estetici e l’incredibile urbanistica che la contraddistingue. Ma non fu mai tale, attraverso tutto il corso delle epoche successive alla sua fondazione, dal punto di vista del modus operandi. Commerciare e spingersi fino ai limiti del mondo, al fine di portare a casa conoscenze e infinite ricchezze: questo era il credo delle navi olandesi e portoghesi, nonché quelle delle altri grandi repubbliche marinare. Ma c’era una città, presso la costa della Siria, che inviava i suoi mercanti verso le vie sull’entroterra d’Oriente, oltre che per mare. Con lunghe carovane ben scortate, dai soldati e dalle genti turche di Damasco. A seguito del suo incorporamento nell’Impero Ottomano, questa città divenne nota per un suo invidiabile segreto, che permetteva ai suoi artigiani di assemblare spade più taglienti, e resistenti, di qualunque altra (escluse forse quelle di un certo paese distante…)
Non è del tutto chiaro chi avesse inventato l’acciaio di Damasco, usato per creare le temute sciabole dei giannizzeri, l’elite guerriera del sultano; ma si ritiene, con ottime basi storiografiche, che questo fosse stato importato dalla remota India. Dove veniva impiegato, fin da epoche assai remote (molto prima della nascita di Cristo) un certo tipo di acciaio, completamente diverso da tutti gli altri. Era questo il wootz, riconoscibile dalle infinite volute, simili ad onde, che percorrevano la sua uniforme superficie.
Il quale nasceva, neanche a dirlo, da una sublime forma di magia. Bramini, sciamani o santoni, come parte di un mistico sacramento, scavavano delle grandi buche nella terra. Da cui veniva ricavato, quindi, un crogiolo di argilla refrattaria in cui fondere il ferro. Qui si mettevano pepite del prezioso minerale, assieme a carbone e foglie di particolari piante, scelte attraverso erbari ormai perduti. La sostanza vegetale, cotta assieme al metallo, si trasformava in carbonio e l’intero impasto, lasciato raffreddare per un giorno intero, generava un particolare reticolo di cementite, praticamente infrangibile, in grado di donare ai manufatti una resistenza e un taglio senza pari. La risultanza quindi veniva indurita nella forgia, ma senza raggiungere i 750 gradi: ciò avrebbe dissolto la stregoneria, conducendo alla produzione di una sciabola comune. Attraverso le strade oblique del commercio, e probabilmente anche in funzione della notevole distanza tra Damasco e l’India, il procedimento originale venne completamente stravolto. Al posto del carbonio naturale, qui si usava il borato, e per favorirne l’uniforme diffusione il pacchetto metallico veniva ripiegato, fino all’ottenimento di diverse centinaia di strati, e solamente poi forgiato nella forma desiderata. Nonostante questo, si diceva che la lama ricurva di un giannizzero potesse facilmente tagliare a metà la canna di un moschetto europeo. E certamente molti ebbero a conoscerne la forza distruttiva, durante gli anni turbolenti successivi alla conquista di Costantinopoli, la Città d’Oro.

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