Avete scozzonato il duro involucro del frutto gigantesco. L’avete sconquassato, suddiviso in spicchi, neanche si trattasse di un limone. Il sugo acquoso, schizzando da ogni parte, ha reso appiccicoso il tavolo, il lavandino. Pezzi e filamenti, tocchi granulosi. Da ogni parte, incluso il pavimento e la parete. Fin sulla punta stessa delle vostre scarpe. Gronda sopra il bavero e la manica macchiata! State giusto per mettervi a mangiare, che già avete voglia di pulire. Peccato. Questa vostra fame, invero è stata una cattiva consigliera. Per secoli e millenni si è perfezionato il metodo di consumare ciascun dono della terra, con un minimo di spreco e il massimo dell’efficienza. Ma persistono svariati esempi di questioni ancora inestricabili, massimamente avverse al regno della metodologia. Sono trappole, tali prodotti vegetali, difficili da percepire. Pericoli da superare un po’ alla volta. Come un saggio samurai, che praticava le arti della spada sulla base di precise geometrie, un vero chef studia le diverse circostanze, prima di applicarsi nel risolverle con stile. Decapitare l’anguria. Sezionare la pannocchia. Sfaccettare il melograno. Zac! Perché mai l’uomo della strada, spinto innanzi dal bisogno…Prima taglia, solo poi ragiona!
Lo scenario: un’estate poco calda, umida e piovosa. Senza validi colori, tranne il bianco e nero delle strisce in alternanza, ben delineate su implacabili zanzare: tigri contro lupi, sangue chiama sangue, rosso, splendido e gustoso. Concediamoci un Citrullus, troppo a lungo rimandato. Verde a strisce. Il tondo grande come il mondo, duro fuori e liscio dentro, saporito all’eccellenza. Un degno emblema degli eroi. Che mai fu sommerso, per fortuna, nell’Atlantico di antiche e sfortunate civiltà, assieme ai continenti delle origini dell’uomo. Cocomero che portavano gli scarabei, fin sulla cima di piramidi dimenticate, sotto gli occhi delle grandi sfingi di granito. Che soprattutto Apollo collocava nel suo carro, ogni mattino e prima di raggiungere le nubi, risvegliando l’appetito dei mortali, poi degli altri (giacché Ambrosia, si usa dire, con la frutta ci sta sempre bene). Dell’aquila gioviana, simbolo di Roma, non si sa. Probabilmente lo teneva ben nascosto, dentro ai templi e nei sacelli dell’Imperatore. Odino, secondo i saggi naviganti delle sue gelide lande nordiche e innevate, lo aveva conosciuto solamente di seconda mano. Assai difficile, del resto, sarebbe stato coltivarlo presso gli orti del Valhalla, questo frutto che proviene dalle lande calde poste presso l’equatore. Una capsula della memoria, giunta infine qui, dal deserto arido del Kalahari, pronta sotto il taglio di un coltello immacolato, freddo acciaio inossidabile, affilato quanto basta e non di più.
La luce del mattino penetra dalla finestra. Amplificata, per un gioco del destino, in un singolo raggio, che risplende sulla punta di quel valido strumento. Lentamente scende la sua sagoma, verso il freschissimo bersaglio, per il pasto tanto lungamente atteso. Non diretta verso il basso, questo è chiaro. Altrimenti, a cosa servirebbe il web? Il qui presente signore, l’americano rappresentante del canale This Blew My Mind [Trad. “Mi hai fatto esplodere la testa”] ci dimostra l’arma segreta degli amanti dell’anguria. La via d’accesso ad una rapida risoluzione. Non è più complessa del seppuku. Anche se ricorda, nella schematica attuazione, una sorta di sudoku. Senz’altri numeri che questi: 1, 2, 3…[etc.] L’imprecisata cifra dei cubetti, così generati sotto i nostri occhi, resta poco chiara all’apparenza. Ma preziosa per la lingua riarsa e per l’ottima sostanza di sostentamento, salutare, ultramondana, che nasce da due tagli ad emiciclo e dodici perfettamente perpendicolari, sei per ciascun mezzo del meraviglioso globo. Ma se la frutta adesso è pronta, e il pranzo si è concluso, sarà il caso di pensare all’ora di merenda…
Hanno una caratteristica in comune, a ben pensarci, simili alimenti degni di un demonio tentatore: il pluralismo dei granelli, delle particelle liberate dal controllo. Cento e mille semi, agglomerati dentro a un tutto indiviso, collagene e metacarpo, delizia e scorza priva di sapore. Sono praticamente delle bombe, pronte ad esplodere quanto il cranio paventato dall’autore della prima affettatura (con artefatta, affettazione e infiorescenza). E ricompaiono, da lungo tempo, in innumerevoli cartoni animati; mangiati a ritmo rutilante, subito risputati, un chicco dopo l’altro, verso il bersaglio di una ridicola contesa. Il gatto contro il topo. Il coniglio contro il cacciatore. Il road runner inseguito dal coyote sfortunato. Ciascuno di essi, a un certo punto, ha mitragliato dalla bocca i semi di cocomero, pannocchia e…
L’aureo frutto della spiga, quell’infiorescenza che contiene il mais. La qui presente è chiara, all’apparenza, come la sostanza di un motore. Quanto il carrello di una macchina da scrivere antiquata, fatto camminare, verso destra e poi sinistra, lungo i denti che sminuzzano i suoi preziosi tasti tondeggianti. Eppure che fatica, guadagnarseli! Oltre le foglie, sotto la corposa barba, un folto mantello di spiacevoli sterpaglie. Di nuovo, una diga invalicabile delle aspettative di felicità. Quando eravamo soltanto noi che, obnubilati dalla tenebra dell’ignoranza, sbagliavamo il metodo e l’approccio. La luce in fondo al tunnel, ce la offre Food Wishes, testata di ricette e soluzioni culinarie. Mostrandoci la via della rivoluzione. Due sapienti mani, solamente. Lui la taglia dalla cima, questa cosa appena cotta, poi la spreme come fosse una banana. E l’oblunga vivanda, adattandosi alle richieste del divoratore, obbediente, fuoriesce. A questo punto non rimane che aggiungervi del burro. E un po’ di sale, prima di addentarla col fervore di un conquistatore soddisfatto.
Avete mangiato il cocomero. Vi siete spazzolati la pannocchia. A questo punto cosa resta, tranne quella cosa della pargoletta mano? Il frutto scaturito dai bei fior di carducciana memoria, che tuttavia sarebbe consigliabile agguantare quando vermiglio, come questi ultimi, piuttosto che di un verde acerbo, presso cui si protendeva il bambino della poesia Pianto antico. Per l’appunto, deceduto, ahimé. Del resto, non era un mondo allegro quello (1871) presso cui la frutta proveniva da lontano, soltanto dopo lunghi anni di una faticosa sperimentazione. Senza l’agricoltura moderna, tali primizie erano dei rari piaceri. Da custodire ed onorare, fino all’attimo della consumazione: tre minuti di felicità, dopo quattro anni di vegetazione e qualche lutto, triste caso del destino. Faticosa fotosintesi, finita in pasto a bipedi affamati. Onoriamo, dunque, il melograno. Come fatto dalla disinvolta sproolinski, in questo suo video da quasi due milioni di visualizzazioni. Un successo come pochi, persino nel regno culinario di YouTube, vasto e privo di confini.
Si trattava in fondo, solamente di trovare le sottili linee di demarcazione. Renderle evidenti, con il taglio di una metaforica katana. Rimuovere il tappo fondamentale del sublime nucleo, buccia inclusa, sotto il fondo senza fronde. E poi spezzare tutto quanto, in un tripudio simile alla cornucopia. Semi pronti da mangiare, tutti assieme, in una splendida manciata. Come fa lei, mentre spiega con la bocca piena: “Se vi cade il succo sui vestiti [gnam,gnam] basta usare subito dell’acqua calda e non vi macchierà.” Ciascuna strategia valida di questo appellativo, lascia sempre un margine d’errore. La fame è assoluta, l’estate è breve. Il frutto fa buon sangue e le zanzare, oh! Sono prive di paura…