In questa dimostrazione del dipartimento dei vigili del fuoco di Kasuya-Hokubu, presso la città di Koga, prende forma un tipo di spettacolo drammatico e ammaliante: quello di una serie di corde, non così diverse da un moderno e tecnologico guinzaglio per cani, qui trasformate in cobra ammaestrati, così eccezionalmente obbedienti e sibilanti di purezza d’intenzioni. Senza nessun tipo di veleno, né occulta zanna pronta per ghermire. Con le fibre intessute, piuttosto, del fluido salvifico che ha nome Competenza. Rapidamente piegate, intrecciate, manipolate dai protagonisti eroici della situazione pregna. Che è rapida, come la scena culmine di un film hollywoodiano. È corroborata dal maestoso magnetismo tipico dell’animazione giapponese. È magistrale nelle conseguenze. È difficile da accantonare nei recessi polverosi della memoria!
Ha inizio con l’arrivo simulato presso il luogo del disastro divampante: i gelidi pompieri, con già il caratteristico caschetto bianco e la vistosa tuta arancione, si bardano freneticamente con la compatta bombola d’ossigeno e la maschera per respirare. Quindi, senza un attimo di esitazione, l’uno lega l’altro, all’altezza delle sue caviglie. Tale espediente, assai probabilmente, sarebbe utile nel caso in cui le fiamme stessero per sopraffare il collega: circondato da ogni lato dall’eterno nemico dell’umanità incauta, costui, potrebbe ancora contare sul suo valido alleato, pronto a tirarlo fuori da ogni tipo di pertugio. È un crescendo questo rutilante show, accompagnato, per il nostro beneficio, dalle note di un’azzeccata e ritmica colonna sonora: il primo componente dinamico duo, superata la ragionevole approssimazione di un condotto dell’aria condizionata, trova un terzo membro della sua brigata. Egli è disteso a terra in modo stranamente composto, ormai privo delle forze necessarie per fuggire. Niente paura! In un secondo, pressapoco, la corda magica lo avvolge e lo avviluppa, poco prima che lui venga trascinato fuori. Sembra il coniglio di un prestigiatore. Inizia giusto allora la prima strofa della canzone, epica e spontanea quanto certi componimenti dei fulgenti anni ’80.
Il seguito, a vedersi, sembra quasi un videogame: scivolamenti al fulmicotone verso l’orizzonte, usando delle zipline tese sul supremo giro del secondo; arrampicate lungo pareti verticali, con ferito al seguito, perfettamente insalamato dal fibroso filo conduttore; balzi e scivolate degni del migliore tipo di parkour. Il video crea un interessante tipo di associazione procedurale, piuttosto trascurata, fino ad ora. Quella relativa all’arte di creare nodi, in caso d’occorrenza, con le chi ha il compito di liberare i prigionieri delle gravi circostanze. Così. Dopo il marinaio, dopo il montanaro, ecco profilarsi un altro fuoriclasse delle corde: il pompiere. In Giappone, giustamente. Dove fin dall’epoca dei Tokugawa (1603-1868) il campo del soccorso urbano è stato considerato tra le poche alternative valide, nonché parimenti meritorie, alla pericolosa percorrenza della via del samurai. Che era sempre pronto a perdere la sua battaglia con la morte, in ogni arroventato giorno della sua missione di vita. Proprio per questo sempre inevitabilmente vittorioso, nello schema confuciano delle cose.
Spiderman e Superman arrotolati in uno, ben conditi con l’apporto del guerriero nero della notte: Batman, che del suo rampino ha fatto il simbolo di una battaglia contro il crimine imperante. Va considerato, per comprendere il loro singolare modus operandi, che i vigili del fuoco giapponesi pre-moderni non avevano a disposizione pompe veramente valide a gettare l’acqua oltre la siepe (o il muro, o il caseggiato). Dovevano, piuttosto, arrampicarsi. E come lo facevano, è una storia degna di essere narrata. Ben messa sugli schermi, in vivide immagini, nella festa annuale tokyoita dedicata ai pompieri caduti sul lavoro, che si svolge presso la fine di maggio nel cortile sabbioso del Sensouji, un celebre, quanto vasto tempio dedicato a Buddha.
Qui, sfruttando alte scale di bambù, i rappresentanti del dipartimento locale decollano agilmente verso il cielo, dedicandosi a comporre splendide figure da ginnasta. Con una mano sola, un piede o due, senza mani, senza piedi, a testa dritta oppure inversa… Tutto è possibile, per chi è infuso del potere del supremo altruismo e dello sprezzo del pericolo: “Senso del dovere, empatia e stoicismo” Era proprio questo, il motto degli hikeshi, gli impareggiabili giardinieri di un pericoloso tipo di pianta, in grado di produrre metaforici petali rossi. Al fuoco, gente! O come gli abitanti della capitale lo chiamavano, non senza un cupo senso d’ironia: Edo no hana (il fiore di Edo, cioé l’odierna Tokyo). Che sbocciò, nel pieno del suo ustionante fulgore, per almeno quattro fatidiche volte: nel 1683, 1806, 1834 e nel 1872. Per ciascuna delle quali, loro erano lì, proprio in prima fila. Con gli alti stendardi costruiti sul modello delle antiche insegne battagliere dell’epoca delle guerre civili, giacché ogni brigata aveva il suo, e i rampini con la corda detti tobi, usati per aggunatare il punto debole di una struttura e poi tirarla giù. In effetti la portata distruttiva di un grande incendio, all’interno di una città costruita quasi unicamente in legno, è difficile da misurare con il senso delle cose odierene. Risultatava essere, probabilmente in linea con quella di un grande disastro naturale, persino un terremoto. Per questo la prassi prevedeva, allora come adesso, di creare in determinati casi il forzoso nulla intorno al fuoco, affinché questo non avesse di che propagarsi.
Erano dunque, costoro, distruttori. Salvatori. Eroi. Veri e propri bodhisattva, individui disposti a sfidare il senso comune per il bene ultimo della popolazione; una responsabilità, questa, non del tutto priva di soddisfazioni. Vinta la battaglia, ricacciato indietro il demone-drago che poteva divorari gli edifici e i loro occupanti, questi guerrieri erano soliti sfilare per le strade. Voltate le giacche ignifughe multi-strato, simbolo imperituro della loro professione, ne rivelavano la fodera variopinta, con immagini di mostri e grandi eroi del passato. Figure, queste, incorniciate da stupendi tatuaggi, mirabolanti copricapi ed accessori. Forse per la prima volta, nella storia giapponese, svaniva il senso della discendenza personale. Ed anche se soltanto per un giorno, anche un figlio di contadini ed artigiani, fra le polveri del disastro appena scampato, diventava pari ad un possente generale.
Il moderno approccio di salvezza delle fiamme, come risulta chiaro ed evidente, deve poco ai metodi spontanei di allora. Tutto adesso è procedura, oculatezza. Ma sopravvive, nello spirito di chi popola quel mondo, il senso di orgoglio ed ottemperanza, l’appartenenza ad un sublime tipo di categoria. Che mantiene il vivido diritto, e la voglia, di essere ammirata dalla gente. Affinché le prossime generazioni, alle prese con le trappole gordiane degli avversi casi, possano continuare a giovarsi di quell’opera di scioglimento.