La Terra è tonda per un ottimo motivo. Perche altrimenti, visto il modo in cui viene illuminata dalla luce unidirezionale di una sola stella, sarebbe priva di albe o di tramonti. Niente vie di mezzo. Al vorticar dell’orbita, di un tale ipotetico pianeta-cubo, l’umanità si troverebbe alternativamente in due diversi stati, entrambi spiacevoli, altrettanto privi di riposo: il buio totale, oppure l’agghiacciante calor bianco di una torrida distesa, del tutto piatta e priva di rimpianti. Meglio una sfera che sei di facce, per andare avanti con il calendario. Non a caso, anche il cervello umano è fatto a questo modo: sferoidale. Nessun limite netto tra geometriche funzioni, bensì villi e ripidi cavilli, mille piegature. Un serpeggiante rincorrersi di fertile materia grigia. Con un taglio proprio in mezzo, che divida nettamente i due emisferi. Il che ci porta alla questione odierna. Perché si diceva una volta, non senza una congrua ingenuità, che da una parte specifica risiedesse la coscienza artistica e creativa, mentre dall’altra quella dedita alla scienza; una credenza che nasceva dall’umana voglia di spiegare tutto, come spesso avviene. Vanità. L’applicazione delle tecniche di misurazione dei campi elettrici in ambito neurologico, ha ormai largamente dimostrato che qualsiasi pensiero illumina, allo stesso tempo, neuroni ben disseminati tra gli spazi contrapposti. Sia dall’una che dall’altra parte. Del resto, altrimenti sarebbe impossibile spiegare la resistenza dimostrata dalla zucca umana ad ogni tipo di trauma, purché questo coinvolga solo la metà di essa. Eppure persiste questa ipotesi di una linea di confine funzionale, assieme a un altro luogo comune, assai peggiore: che l’artista, in quanto tale, debba rifiutare il mondo della scienza esatta. O di qua o di la. Quante volte l’abbiamo temuto! Che scrutando troppo a lungo la matematica, in qualche maniera, se ne venga contaminati nel profondo, perdendo la voglia di creare cose imprevedibili o prive di una valida funzione. Senza più espressione tranne l’aritmetica.
Tanto meglio, dunque, prendere esempio da questo creativo di origini tedesche, nato a Monaco ma residente a Los Angeles nell’assolata California. Da dove si applica, in diversi campi, per un interessante sincretismo: quello fra geometria e stravanganza visuale. Racconta nella sua pagina, Andreas Markus Hoenigschmid, di come la sua vita abbia tre pilastri, ciascuno importante quanto gli altri due. Il primo viene dalla gioventù. È il firedancing, ovvero la tecnica di ballo e intrattenimento che preve l’uso di fiamme vive a coronamento dei diversi movimenti. Roba da grandi mangiafuoco, benché poco rilevante per l’analisi corrente. Il secondo pilastro è quello del suo presente. Trasferitosi negli Stati Uniti, forse per amore (sulla sua biografia, una foto con signora) egli ha scoperto una passione nuova – disegnare titanici mandala nella sabbia. Ma cominciamo dalla fine! Il futuro, ovvero il cubo. Reinventato: quello che lui chiama, con sagace scelta di marketing, HyperQBS dall’ipotetico solido che si estende nella quarta dimensione. Cosa che la versione materiale dello stesso, ahimé, ancora non sa fare…Benché gli manchi solo quello. Infatti questi straordinari oggetti sono giocattoli, o rompicapo che dir si voglia, dalle moltelici risorse. Poliedrici, persino. Si trasformano, si uniscono tra loro. L’inclusione di un sistema di magneti, inseriti in modo invisibile nella struttura cartonata, gli permette di costituire forme multiple o persino grandi arredi, vere e proprie torri del soggiorno e del salotto. L’idea non è del tutto nuova (quale mai lo è stata?) Eppure è molto interessante, nel suo caso, perché rientra in un filo conduttore ben preciso. Per capire quale, basta alzarsi la mattina assieme a lui, seguendolo verso l’onde e la risacca…
Gli ipercubi di Hoenigschmid, piuttosto che basarsi su quello dipinto da Salvador Dalì, guardano verso un cognato, se non cugino del ben più famoso figlio della mente del Dr. Rubik, il rompicapo rotativo che da un secolo rovina i pomeriggi di chi ha carenze di tempo e di pazienza. Un altro tipo di enigma. Tale oggetto, tradizionalmente caratterizzato da una livrea di due o quattro colori al massimo, prende il nome di Cubus X. Ne ho uno proprio qui davanti a me, come musa ispiratrice. Il suo inventore, Hartmut Endlich, l’aveva concepito come un oggetto cubico scomponibile in 12 tetraedri, uniti tra loro per uno spigolo soltanto e quindi in grado di ricombinarsi in oltre 200 forme differenti. Benché non potesse ricombinarsi assieme agli altri suoi simili, restando dunque limitato a un numero finito di possibilità.
Per capire quanto questo faccia la differenza, come dicevamo, occorre osservare l’altra principale produzione dell’artista, questi giganteschi e magnifici mandala, tracciati con sabbie o pietrisco di diversi colori, tra le spiagge attorno alla sua città d’adozione. Luoghi tra cui spicca la celebre Santa Monica Beach. Qui, assieme a degli amici, lui si dedica a un diverso tipo di geometria. Quella di due sole dimensioni, con metodologie non troppo dissimili dai problematici cerchi nel grano. “Impossibili” soltanto per chi non ha mai piantato un palo nel terreno, tirando poi una corda (ah, il compasso dei titani). E sarebbe del resto altrettanto inimmaginabile, costruire simili meraviglie, senza il metodo dell’infinita ricorsività. La realizzazione, per il tramite della mano umana, della naturale propensione a ritrovare il piccolo nel grande, verso un tutto ancor più grande e così via. Se 10 o 100 cubi, combinati fra di loro, possono formare ogni possibile fantasiosa geometria, questo non significa che perdano la loro identità. Tutto è riconducibile alla forma di partenza, come avviene per i triangoli nel cerchio o per gli ospiti del labirinto, che lui aveva tracciato, forse per errore, poco prima dell’insorgere della marea.
Eppure, cosa importa? La geometria è immortale. Ed alla fine ciò che conta resta metterci le mani. Sia come teorici del mondo della scienza, che come creatori di un minuto di preziosa riflessione. Il cervello un tempo diviso, oggi sarà pure stato unito. Ma dovrà pur sempre mangiare il suo pane-poligono quotidiano.