Pensare piano- andando -forte. Non sono queste marce di un veicolo con rigidi pneumatici, né metodi di un speciale training autogeno per l’acquagym; bensì due componenti di una procedura superiore che fa capo a uno strumento musicale, il più immobile di tutti quanti. Un mobile, praticamente. Però che ingombro! Quando ciascuna di tali diciture (piano/forte) sostiene il duplice principio della calma e dell’agitazione, custodito dentro al grande meccanismo; ciò significa, a conti fatti, che sono entrambe autosufficienti. Per produrre suoni, basterebbe il solo piano. Quest’uomo giapponese percuote con le dita della mano destra alcuni piccoli oggetti di plastica, tra cui un righello, un cucchiaino, un compact disc. Vediamo quanti sono: ichi-枚, ni-枚, san–枚… Enumeriamoli usando quel carattere (mai) che serve giusto per contare cose piatte e larghe. O per meglio, dire, prive di spessore. È un ritmo sincopato che cattura il senso del minuto, grazie alla forza espressiva delle note tipiche di una certa serie di doujin, ovvero giochi digitali autoprodotti. Ebbene si, siamo di nuovo nel mondo dei videogame nipponici. Il pezzo qui eseguito, con un artificio tanto fuori dagli schemi e l’aiuto del computer che accelera la scena, è quello usato per un momento culminante di Embodiment of Scarlet Devil, il sesto episodio della leggendaria serie di Touhou (La fanciulla del tempio – 2002) un pezzo accattivante, proprio perché difficile da eseguire. C’è una chiara evidenza di tale video: l’autore stava facendo sul serio. Quando per la registrazione di un proprio particolare cimento, si pubblica anche una ripresa delle sapienti mani all’opera sugli strumenti, allora si capisce! Che sarà meglio sgranare gli occhi. Con un joystick o altro ancora, non importa. Vale per una partita a Tohou, come per chi fa suonare le cannucce o i banchi della RAM. C’è un maggiore senso di agonismo e concentrazione, in due minuti di una pratica di questo tipo, che nell’intera produzione di mensile di una grande e moderna software house. Difficoltà non significa impostare il livello ultra-hard, per punirsi ripetendo la stessa sequenza o sparatoria per 10-15 volte, finché alla fine non ci si ritrova spinti avanti per un colpo di fortuna. Ma applicarsi nel comprendere, e applicare, meccaniche complesse, dalle multiple sfaccettature. Sassofoni, chitarre…Non vi ricorda nulla, tutto questo? Alla fine, i videogiochi sono un particolare tipo di hobby, considerato poco utile perché fine a se stesso. Un po’ come la musica. Eppure, nessuno mai si sognerebbe di porli allo stesso livello. Ancora. C’è un’espressione anglofona, ad ogni modo, che ben si applica ad entrambi i campi, nel connotare il gesto di chi vi opera ad alti livelli: è l’essere in the zone (nella zona) – Il raggiungimento di uno stato di concentrazione superiore, tale da poter assimilare il flusso stesso di un fondamentale ritmo, tanto utile per muovere un piccolo personaggio tra i miriadi di proiettili e nemici, quanto per produrre una sublime sinfonia. E chi potrebbe mai affermare che nemmeno quella, serva ad alcunché!
È una droga ma benevola, ricca di implicazioni positive. Una volta che sei andato veramente -forte, non puoi più tornare indietro. La creatività da sempre assuefazione. E cosa sarebbe percorrere uno stage di questi videogiochi, se non l’applicarsi nell’implementare una complessa soluzione, ai problemi posti in essere da un avversario, il designer, armato di strumenti all’apparenza quasi insormontabili… Demoni, creature volanti, mostri ostili appartenenti a tradizioni antiche: ciascun essere che infesta i cieli di uno sparatutto, alla fine, diventa come un irrequieto flautista, un cimbalista di un’orchestra scalcinata. Mentre la musica suona soave e indisturbata. Con l’eroina posta al centro dell’azione, la bishoujo Reimu Hakurei, o una delle sue amiche, che tenta di ristabilire l’ordine tra le immagini con la bacchetta del suo scettro gohei, tipico strumento di esorcizzazione.
Tale parallelismo ludico/sonoro, ai giorni nostri, è anche meno astratto che nelle epoche digitali trascorse. Esiste un intero genere di giochi, i rythm games, che portano i loro partecipanti verso la “zona” usando un metodo affine a quello tradizionale: il trascinamento innato della mente che va in sinestesia. Gesti, che diventano note (o viceversa, in questo caso) e lampi di luce colorata. Perché proprio questa è la forza del gioco digitale, il suo essere accessibile. Mettete un uomo della strada innanzi a un piatto da DJ, piuttosto che a un complesso sintetizzatore moderno, quello potrà al massimo suonarlo un po’ ad orecchio. Si divertirà, probabilmente, però senza ritrovare l’estasi della creazione simulata; cosa che indubbiamente può succedere, invece, quando ci si applica con approcci simili al seguente:
Cos’è Sound Voltex? Non chiedetelo a me. Io posso solo, come tutti gli altri giocatori occidentali, guardare e restarne affascinato. Tanto dalle nostre parti non ci arriva! Colpa del mercato settorializzato. Si tratta di un viaggio, un’esperienza ricolma di assoluta tracotanza mistica e filosofale. Due minuti, per il tramite di questo impeccabile video, in cui qualcuno preme, gira e switcha un gruppo di bottoni, tentando di seguire la più arzigogolata delle colonne sonore. Il che dimostra, senza ombra di dubbio, che non c’è limite alla voglia di miglioramento. Se giovani giapponesi, visitatori occasionali di affollate sale da gioco, riescono a raggiungere tali livelli di sveltezza manuale, che poi mettono a frutto facendo vibrare innocui pezzettini di plastica dal suono celestiale, allora che dire di noi. Che neanche riusciamo a completare il sesto episodio della serie di Tohou, senza usare 15 vite e 3 continues. Proprio non ci riesce di sparare ad avversari digitali troppo veri, senza usare le pistole, i carri armati ed i fucili. E quelle cose lì, purtroppo, suonano sempre allo stesso modo: PAM-PAM-PAM!