L’acqua placida e vermiglia dello stagno di palude, costellata dei riflessi arborei del mattino, ricopre col suo manto un brulichìo selvaggio. Saettanti piccoli pesci, in cerca di girini e saporito plankton. Le inermi larve dei ditteri e dei coleotteri, cibo per le cimici spietate. Quanta fame, avidi scorpioni nuotatori! E mille altre creature che si ricorrono l’un l’altra, sperando che il successo diurno nella caccia gli permetta di crescere, ancora per un’altro po’, verso lo stadio maggiormente atteso della loro vita. La maturità che presagisce alla riproduzione, onda inarrestabile delle posterità. Niente riposo, tranne che per lui/lei: questo è il ragno con l’argenteo scafandro, l’unico della sua discendenza, a quanto ne sappiamo. Un palombaro. Che non si affretta di continuo, bensì attende. Come vorrebbe, del resto, la prassi di tutti gli aracnidi che tessono una tela, per intrappolare i popoli del cielo in questo ossigenato mondo della superficie. Ma l’acqua, oltre a rifletterla, distorce la realtà. Osservando questa polla luminosa, immersa tra conifere e incorniciata dai distanti picchi di montagne frastagliate, non rivedi quello stesso splendido paesaggio, ma figure di radici stranamente virulente e colossali stalattiti acuminate, rivolte rigorosamente verso il basso: il mondo all’incontrario. Tutto è simile, eppure sottilmente diverso. Qui, persino le creature ad otto zampe sanno come costruirsi gli strumenti del progresso.
Neanche due centimetri, per un dilemma senza soluzione fino a tempi assai recenti. I primi a porselo formalmente furono Roger Seymour e Stefan Hetz, ricercatori dell’Università di Adelaide, pubblicando i risultati del relativo studio solamente nel 2011. Come può essere, oh, quale sarà la ragione, per cui questo pazzesco ragno può restare in acqua (quasi) quanto vuole? Riemergendo appena, se ne ha voglia, una o tre volte al dì… Ebbene, l’evidenza, come sempre capita, dava un chiaro indizio della soluzione. Il ragno acquatico è dotato di zampe ed una schiena con del pelo estremamente fitto; tanto che, in qualche maniera, intrappolata tra le setole rimane l’aria. Una ricca serie di piccole bolle, unite tra di loro, che l’essere si porta dietro quando va sott’acqua. Le quali, una volta dentro al nostro caro fluido H2O, si attraggono reciprocamente per l’effetto della tensione di superficie, generando un solo grande manto d’aria, che il ragno àncora con la sua tela a qualche filo di vegetazione. Proprio tale pratica da all’animale quell’aspetto riflettente, argenteo e quasi traslucido, che gli è valso l’appellativo di argyroneta, dal greco ἄργυρος(argento) + νητής (suffisso tratto dal verbo tessere). Questa subacquea, in quanto tale, già era largamente nota. L’aspetto innovativo dello studio era stato piuttosto il fatto, evidenziato per la prima volta, che persino i piccoli polmoni a libro dell’aracnide avessero avessero bisogno di una quantità d’aria superiore a quella recuperata giornalmente. Il ragno palombaro caccia sott’acqua. Lì, digerisce la sua preda. Muta l’esoscheletro. Depone le sue uova. Ci leggerebbe anche il giornale, se potesse. Senza bombole di sorta! Il suo segreto…
Era tutto nel concetto di una vera e propria branchia, fatta con le cose semplici della natura. Ecco come respirano i comuni ragni: l’ossigeno, assimilato attraverso una serie di tubicini nell’addome definiti trachee, penetra nell’organismo per riempire le sue cavità interne, gli atria. Qui, in una serie di “pagine” sovrapposte, passa l’emolinfa, l’equivalente del sangue umano, che scorrendo a più livelli viene subito arricchito dal fondamentale gas. Questa procedura tuttavia, nell’argyroneta aquatica, trova un punto di partenza differente. L’incredibile bolla posta intorno al corpo, infatti,presenta caratteristiche di densità particolari, che consentono di ottenere, nell’acqua ben ossigenata, un’immediata filtratura delle molecole di sostanze adatte alla respirazione. Questo avviene grazie a differenze nella pressione parziale di ciascun fluido dell’insieme. La stessa bolla inoltre espelle continuamente il diossido di carbonio che inevitabilmente produce il ragno, permettendogli, dunque, di assimilarne solo l’utile rimanenza. Ciò scoprirono Roger Seymour e Stefan Hetz, tramite l’impiego di uno strumento denominato optode: che questo essere, sostanzialmente, è l’unica creatura del regno animale in grado di costruirsi un ausilio artificiale alla respirazione. Oltre a noi. Il che gli permette di mettere in pratica particolari strategie di caccia. Il maschio, talvolta più grande anche del 30% rispetto alla femmina (caratteristica rara nei ragni) è particolarmente agile e lascia spesso la sua bolla intrappolata nella tela. Trattenendo il fiato, con l’ausilio di zampe lunghe e affusolate, si avventura per gli abissi relativi del suo ambiente, sia di notte che di giorno, andando in cerca di pulci acquatiche, isopodi, larve, gamberetti ed anche di altri aracnidi, se sufficientemente affamato. La tozza controparte, invece, si comporta come un aracnide di superficie: costruisce una casa maggiormente vasto, con molto ossigeno al suo interno, e vi passa le giornate ben sicura che, presto o tardi, qualche cosa vi andrà contro. Restando gustosamente intrappolata, come pasto luculliano per i suoi cheliceri taglienti. Lei risulta inoltre maggiormente attiva la notte, come dovrebbero esserlo, del resto, tutte le creature tanto atroci e misteriose. Entrambi i sessi sono dotati di zanne velenose, in grado di penetrare dolorosamente anche la pelle umana.
Il ragno palombaro non divora normalmente la sua compagna, né viceversa. C’è troppo poco dimorfismo sessuale (differenza tra le reciproche forme) lei misura fino ai 13 mm, lui fino ai 18. Ma sono spesso equivalenti, sia nel peso che nella voracità. L’accoppiamento tuttavia, risulta essere comunque burrascoso. I due si incontrano, quasi per caso, fuori dalla grande bolla della femmina. Qui, orbitando come pianeti, inziano la loro danza. È una lotta metaforica, questa, che può avere due esiti diversi: se non davvero interessata, lei lo scaccerà con furia. Altrimenti, alla fine, gli aprirà la porta metaforica della sua casa in filo e meraviglia. Una volta effettuato il rapido trasferimento dello sperma, niente di davvero memorabile (ahimé) lui rimmarrà nella bolla d’ossigeno, per qualche minuto. Osservandola, compiacente, nelle prime fase di deposizione della ootheca, la grande sacca delle uova lungamente attesa. Per poi lasciarla, ben presto annoiato, ad un’opera che durerà diverse ore. Alla fine, in quella residenza trasparente, ci sarà un numero variabile tra i 50 e i 100 ragnetti potenziali, tutti nati da quel singolo attimo di subacquea passione. L’argyroneta vive due anni, e si accoppia più volte per ciascuna primavera. Avete dubbi, dunque, sulla sua sopravvivenza? Il suo areale si estende dall’Europa all’Asia settentrionale, fino al sessantaduesimo parallelo
La madre per assicurare la sua prole, a questo punto, chiude la sua sommersa ragnatela. Vi manterrà soltanto una piccola porticina, da cui fuoriuscire raramente, per cacciare. Farà la guardia per i pochi giorni necessari alla schiusa, quando i piccoli, già formati, morderanno la parete della loro sacca, scaturendo tutti assieme, in un tripudio di operose zampe, bocche che vibrano ed addomi lucidi di possibilità. Nel giro di due settimane i ragnetti cambieranno l’esoscheletro più volte, fino al raggiungimento uno stadio di maturità intermedia, sufficente per nuotare via. Chissà cosà penserà la loro madre, giunto quel momento sopraffino…Oh, finalmente! Che liberazione! Sono ancora giovane ed ho molta fame. Oppure: il mio orgoglio non conosce confini. Possano i gamberi, e le pulci, e i girini e il plankton, temere questi miei fieri discendenti, portatori della torcia della forza, dell’ossigeno argenteo e del veleno nelle fauci. Nonché del vincolo nascosto, presupposto ottuplice dell’aracnide continuità.