Carne, pesce, spezie o vegetali, tutto quello che mangiamo…Ha origine dal fuoco. Anche quando è crudo. Solo e sempre con la luce della stella del mattino, si maturano le sorbe, le nespole ed i cereali. E come inalterabile finale, a quello fanno inevitabile ritorno. Verso le calorie di un maggiormente nobile destino: scorporati e sminuzzati, presto assimilati nello stomaco, poi bruciati, al calor bianco, nelle cellule mitocondriali. Per far muovere la macchina che ha nome “uomo/donna”. Processare il cibo, ad ogni modo, è un procedimento che può trovare vie alternative di risoluzione. Soprattutto sarebbe difficile non citare questa, del mortaio e del pestello, tra le più antiche, irrinunciabili e fondamentali.
Lo sapevano gli Aztechi, i Maya e le altre civiltà precolombiane. Il capsicum, peperoncino dalla soave piccantezza, migliora quando viene sminuzzato. Nella salsa, nel guacamole e nel chili, fatto in polvere finissima, diventa come un manto che pervade le papille gustative, l’onnipresente spettro della lava che ribolle nel profondo dei vulcani. Ormai acquietati, eppure mai silenti. Perché sono pur sempre fonte, tali montagne borbottanti ma benigne, di un tipo di roccia assai particolare: il basalto, poroso e quasi nero, morbido abbastanza per essere plasmato con il colpo del martello. Duro a sufficienza da resistere a una vita di lavoro. In questo video, accademico e magniloquente, si assiste all’intero procedimento produttivo del tradizionale molcajete (pron. molcahete) anche detto in lingua nahuatl molcaxitl, da molli (salsa) e caxitl (ciotola). Un semplice recipiente per produrre condimenti, ai nostri occhi, eppure molto più di questo. Perché, tanto per cominciare dalla fine, viene ricavato da una sola pietra, svuotata come fosse una canoa polinesiana, eppure destinata ad acque assai particolari. Quella dell’Oceano dei sapori. Ciò è di per se basterebbe a renderlo stupefacente, in quest’epoca di macchinari e chilometriche catene di montaggio.
L’artigiano specializzato, generalmente un depositario di stimate tradizioni di famiglia, inizia il suo viaggio verso la montagna, accompagnato da almeno un asino o da un mulo. Perlustrando gli altipiani, va in cerca degli affioramenti minerali maggiormente promettenti, per consistenza, caratteristiche della superficie e colorazione. Il suo obiettivo non è facile da perseguire, ma lui sa che avrà successo, se persevera abbastanza a lungo. Una volta trovata la pietra prediletta, quindi, usando la sua ascia di metallo, anch’essa frutto di un’antica prassi artigiana, ne spacca grossi pezzi, che impila uno sull’altro, lega attentamente e carica sugli animali; alquanto giustamente definiti, nel commento audio, bestie nobili (e assai pazienti, aggiungerei). Una volta ritornato a valle nella sua officina, inizia il vero lavoro.
Nessun disegno, progetto o linea guida di partenza. Guidato dal solo suono ritmico dei suoi strumenti, l’esperto fabbricante percuote la sua roccia, un colpo dopo l’altro, in un vortice di schegge e polvere di pietra. Il basalto lavico, per sua implicita natura, ha una struttura che viene definita vescicolare. Come il travertino, infatti, piuttosto che essere liscio e compatto, presenta una costellazione di pori e forellini pieni d’aria, le infiltrazioni incorporate in epoche preistoriche, al tempo della sua pietrificazione. Ciò gli conferisce, in potenza, un’alto grado di malleabilità. L’obiettivo finale, in questo e in altri casi simili, sarà quindi riprodurre quella forma assai riconoscibile, che è da sempre un vero e proprio marchio di fabbrica della cucina messicana: un’armoniosa conca semicircolare, con tre tozzi piedi e un bordo spesso. Il numero tre veniva associato al dio Huehueteotl, personificazione della vita dopo la morte e portatore di cibo nei periodi di carestia. Qualche volta i molcajete sono decorati con la testa di un animale, generalmente un maiale, in modo che i piedini di sostenimento sembrino altrettante zampe. Simili oggetti, sculture concepite per un uso quotidiano, acquisiscono la dignità di veri e propri tesori familiari. Va considerato, a tale proposito, che una pietra come questa è virtualmente impossibile da pulire fino in fondo. Per questo, dopo anni di utilizzo, la ciotola si guadagna una sorta di patina, o sapore residuo, che in qualche modo caratterizzerà ogni singola cucchiaiata della salsa che ne fuoriesce. Donandogli un sapore unico da riprodurre, diverso per ciascuna casa. Sarebbe un po’ il principio, per comparazione, delle tazze per la cerimonia del Té giapponese, macchiate, rovinate, proprio per questo tanto più preziose secondo l’estetica dello Zen.
La procedura usata per riportare la ciotola allo stato relativamente neutrale, dopo il suo utilizzo, prevede la macinatura di un pugno di riso bianco ed insapore, ripetuta per un certo numero di volte. Questo, insinuandosi nelle infinite intercapedini dovrebbe, secondo l’idea, portarsi via i residui e le sgradite rimanenze. Tale procedura, in modo particolare, viene caldamente consigliata subito dopo l’acquisto, per rimuovere gli inevitabili depositi della polvere di basalto, che altrimenti finirebbe digerita assieme al resto. Problema non presente, questo è ovvio, nei falsi molcajete fatti di cemento, qualche volta acquistati, per errore, da turisti inconsapevoli.
Il mortaio da cucina esiste, come utensile, a tutte le latitudini ed in ogni nazione del mondo. È come se questo gesto, di macinare gli ingredienti, conducesse allo stato di una calma superiore, l’attimo meditativo prima dell’incontro con i commensali. In Giappone, altra terra in cui l’artigianato delle cose semplici ha una spiccata componente culturale, il mortaio viene chiamato suribachi (すり鉢) ed il pestello surikogi (すりこぎ). La versione contemporanea di tale oggetto può essere fatta risalire, senza particolari differenze estetiche, fino a ritrovamenti archeologici dell’epoca Kamakura (1185–1333). Tesori nazionali questi, quasi nuovi nell’aspetto. Benché i materiali usati per la costruzione, stavolta, siano decisamente meno imperituri della pietra mesoamericana: legno e ceramica, semplicemente. La ciotola giapponese presenta un aspetto assai particolare. Il suo interno è zigrinato, come se si trattasse di una sorta di grattugia, al fine di tritare meglio i semi di sesamo, le alghe, il pesce o i funghi shirataki. Sono molte le delizie che traggono l’origine da questo strumento, dal ganmodoki, tofu fritto e insaporito con verdure, al condimento per la shiraae, un’insalata mista con carote, spinaci, patate schiacciate e fagioli verdi.
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