Immagini dal regno traslucido della profondità

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Essere sovrastati e avvolti dall’arte, sentirla che preme tutto attorno fino a perdere la cognizione del momento. È una sensazione molto nota. Tra le barocche mura di una chiesa, oppure lungo le scalinate di una vasta galleria museale, oltre i limiti della possente architettura; quando le tele tutto attorno, appesantite dai colori dei maestri, sembrano ciascuna una finestra; verso mondi ed universi divergenti. Non resta nulla del pennello, tranne il resto; lo Zen della figurazione. È una questione meramente tecnica, alla fine. Ci sono validi strumenti e il primo è la composizione. Vedi, Caravaggio. San Paolo quasi calpestato dal cavallo, accecato dalla luce della Verità, era posto al centro del racconto proprio perché ai margini del dipinto, semi-nascosto dalle forti zampe della bestia. Su questo ci sarebbe da dire…Ma non c’è tempo, andiamo oltre. La seconda delle armi, in questa campagna bellica per la conquista degli sguardi pellegrini, potrebbe essere l’uso sapiente del colore; che per citare Kandinskij, l’espressionista astratto, sarebbe lo spettro sui tasti dell’anima, trasformata in pianoforte. Anche questo, non è il punto. Ne il momento. Parliamo, invece, della terza fase operativa. Lo strumento sacro di chi crea le immagini del mondo, la preziosa ambrosia delle arti grafiche. La prospettiva.
Un sistema matematico di proporzioni e divine geometrie, che consentiva agli iniziati di raffigurare la distanza. Il nesso visuale, niente meno, del nostro primo Rinascimento, tra gli studi scientifici di Brunelleschi, gli affreschi del Masaccio e il Cristo scurto di Mantegna. Che mai trovò corrispondenza, in quanto tale, nei paesi dell’Estremo Oriente. Avete mai visto le incisioni xilografiche del monte Fuji? O le pitture paesaggistiche delle montagne del Kumgang, i picchi del diamante coreano? Per non spostarci in Cina, tra i magnifici paraventi con i monasteri delle tigri sopra i pietrosi colli dello Shaanxi, ombreggiati dal massiccio incombente dello Hua… Ciascun monte, perfetto. E perfettamente isolato; non c’è atomismo, ne commistione generativa. Gli elementi si susseguono l’uno sull’altro, sempre più in alto, verso la cima dell’immagine, dove fa capolino il cielo; e manca, soprattutto, un punto di fuga. Nulla converge per trovare il senso ultimo, lo sguardo contrapposto del creatore, a quello supposto dell’osservatore. Ma piuttosto, come in un carattere ideografico, molti tratti indipendenti, che trovano il senso collettivo nella loro interazione reciproca, senza intrecciarsi, eppure guadagnando, eccome, dalla somma delle varie componenti. Ciò non significa che siano quasi piatte, queste immagini, eppure. Manca sempre qualche cosa. La vera e propria tridimensionalità; che non è un sentire personale. Né fonte di un soave sentimento. Ma un preciso canone realizzativo, basato sul funzionamento degli occhi e del cervello umano. Come fare, senza dover copiare da Occidente? Un artista cinese, Xia Xiao Wan, ha la sua idea. È sconvolgente.

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Tutto inizia intorno ai primi anni del 2000, quando l’artista, recuperando alcune lastre di plexiglass gettate nella spazzatura presso la sua abitazione, inizia a dipingervi con mano sperimentativa. Lui, nato a Pechino negli anni successivi alla Rivoluzione Culturale ed emigrato con la sua famiglia, come molti sui connazionali, verso le terre rurali dello Zhejiang, per sfuggire alle persecuzioni del partito. Che racconta, nel breve documentario pubblicato presso il sito della Galerie Ursmeile, di come verso gli anni ’70 dello scorso secolo, viaggiando per il suo vasto paese, avesse preso a disegnare per mettere su carta il suo sentire. Fino al 1982 quando, ormai adulto ed erudito, si era laureato al CAFA della sua cittá natía, l’Accademia Centrale delle Belle Arti. Un luogo di espressione ed anche ribellione, celebre, tra le altre cose, per la statua della dea della democrazia, che i suoi studenti eressero clandestinamente pochi anni dopo, in occasione dei disordini di piazza Tienanmen. Dove fosse, lui, in quegli anni, non mi è noto. Ma so ciò che stava facendo: era un giovane artista di successo, autore di numerosi quadri ad olio, molto interessanti, vagamente affini, per approccio visuale e stilémi tematici, ad alcuni grandi autori del Rinascimento. Ne viene mostrato un ampio catalogo nel video sottostante.
Ma quegli autori italiani, oggi, li abbiamo già citati, dunque ritorniamo senza indugio a quel recupero fatale, di presupposta spazzatura trasparente. Vero cardine del suo presente.

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Via – Galerie Ursmeile

Nei dipinti tridimensionali di Xia Xiao Wan, l’obiettivo è superare certi limiti che troppo spesso diamo per scontati. Perché lui fondamentalmente ritiene, ed ama ripetere nelle interviste, che la nostra prospettiva sia un inganno. L’artificio di un prestigiatore occulto, che in qualche maniera, per dare forma agli ambienti del suo intelletto, falsa i limiti della tela o della carta. Concetto alquanto interessante. Perché se giri attorno alla trinità del Masaccio, o al successivo Cristo del Mantegna, mai e poi mai potrai vedere i lati delle sacre figure, né osserverai cosa si celi oltre le colonne, dietro quella tomba e quel cuscino. Tutto è finto, disegnato.
Tutt’altra storia che un dipinto plurimo dei suoi, disegnato lastra dopo lastra, su una serie di riquadri di plastica trasparente o vetro. Artifici strutturali, questi, che certamente non erano accessibili agli antichi; troppo doveva avanzare, questa nostra tecnologia. Ed anche certe preferenze culturali. Perché queste membra che sbucano dal muro, che paiono seguirti con lo sguardo, fanno indubbiamente un po’ impressione. Non per niente, nelle mostre di quest’artista, sembra sempre regnare un senso di cupezza niente affatto indifferente, con tende tirate, luci soffuse e pareti di colore nero. Vagare in tali luoghi, circondati dai perversi volti e dèmoni del suo creare, crea i presupposti di un diverso tipo di sentire: l’ansia data inevitabilmente dalla uncanny valley o zona perturbante, per usare un termine moderno ed informatico. È indubbio che ci sia un superamento dei modelli. Il miglioramento, come sempre accade, è soggettivo.

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Ryusuke Fukahori – Goldfish Salvation

Di sicuro aveva preso piede maggiormente, qualche tempo fa, l’opera del giovane artista giapponese Ryusuke Fukahori, che con una tecnica simile, ma basata sull’acrilico, rappresenta carpe ed altri pesci, preferibilmente rossi. La sua mostra del 2012 all’ICN Gallery di Londra, abbinata a questo affascinante video, l’aveva fatto definire dai teorici del web come l’inventore di una tecnica artistica affine alla protitipazione plastica, per così dire, una stampante tridimensionale umana. La ragione di tanta visibilità, a mio parere, è da ricercarsi nel soggetto. Un pesce in barile: niente di più rassicurante, a questo mondo. Perché l’impiego della prospettiva non è soltanto un semplice rappresentare. In essa, come in tutte le altre tecniche applicate, c’è il senso della mano umana che intrappola la natura. Riprodurre l’intangibile, questa terza dimensione, nella pratica forma di una lamina di pittura, piatta e senza alcun segreto, ha un che di rassicurante.
In quest’ottica di partenza, l’opera di chi ben conosce questa arcana tecnica, la domina persino, ma gli preferisce qualcos’altro ha un che di strano. Il tagliare a fette gli atomi e le membra, per poi nuovamente sovrapporli. Disegnare sezioni di mani e gambe umane, l’una dopo l’altra, per poi aggiungere un bizzarro volto, sulle ultime tre lastre solamente, è quasi macabro, in effetti. Perché dimostra i limiti dell’apparenza. Cosa siamo noi, se non l’aspetto? Gli organi, il cranio e le vertebre, le tibie immerse nella carne…Ciascuna di queste cose, e molte altre, sono dentro e non le vedi. Puoi non crederci, se vuoi. Ma un cubo trasparente, come questo, è immutabile realtà. Sembra quasi di caderci dentro!

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