Assolutamente… Potrebbe definirsi il fondamento stesso dell’immaginifico di stampo tolkeniano: “Un antico male si risveglia” sta alla fantasy moderna, come il “C’era una volta” aveva corrisposto ai classici dei celebri fratelli Grimm. Entrambe le alternative letterarie, ciascuna a suo modo, hanno da sempre costruito un piano prospettico temporale prolungato, pensato per donare rilevanza all’avventura. Ma mentre l’antefatto della fiaba si accontentava di allontanare dal quotidiano il punto di partenza, colpendo soprattutto un pubblico compiacente di bambini, l’altra cupa controparte… È decisamente carica di sottintesi. Nonché terribili preoccupazioni, perché verrà da chiedersi, ad alcuni: “Un antico male? E chi lo rimetterà a dormire? Di sicuro, non io”. Direi che fosse proprio questo il nesso dell’impresa, alla fine. Stabilire le regole di un grande gioco. Vade retro, Mammòna: questa fronte suda senza guadagnare. Nulla!
Da queste nubi temporalesche prese forma Tobias and the Dark Sceptres (notare la grafia britannica, laddove in America si sarebbe scritto Dark Scepters) l’opera maestra di Adam Butcher, una poliedrica avventura pixelgrafica tra terre di tormento e mostri torreggianti, da viversi nei panni di un curioso personaggio in giubba verde, liberamente tratto dalle pagine sugli hobbit de Il Signore degli Anelli. Un videogioco concepito nel 2000, disegnato, poi messo a punto e programmato dalla mente di lui, solitario e sola-mente; con qualche interruzione. Ciò è soltanto naturale. Del resto, nel frattempo, l’autore si era reso celebre come fabbricante di ottimi cortometraggi per il pubblico del web, dall’alta circolazione sui lidi dilaganti di YouTube. Centinaia di migliaia di click all’attivo. Per lui che a un certo punto sarà giunto a pensare: perché non unire le due cose! Trovare finalmente il tempo… Dopo tanti anni, di apporre la parola Fine sulla grande Opera, di un se stesso delle scuole medie, per poi trarne un pantagruelico racconto. Da narrare tramite l’apporto di tecnologia del nuovo secolo & la cultura info-memetica dei nostri giorni. Il gioco è bello. Il video, un’avventura ancor più grande: un post-mortem animato pieno di rimpianti, che tuttavia risuona del magnifico vagìto, lungamente atteso. Ecce gamus: per chi lo volesse, e non vedo proprio come resistere a una tale fantasia, il munifico prodotto è disponibile sul sito ufficiale, per il prezzo di cui parlavamo sopra. Nessuno. Ma con un guadagno, per chi l’ha creato, veramente significativo. Immaginatevi per un momento, questa sensazione di poter sfruttare un popolo senza confini, l’intero insieme di chi naviga per sport, al fine di realizzare i propri sogni di ragazzo. Diventare, finalmente, famosi; per ciò che si amava fare allora. Oltre che per quello che si è fatto dopo. Se non è questo un miracolo della tecnologia…Ma vediamola un po’ più nel dettaglio, questa gemma dell’interattivo-fatto-in-casa.
Tobias and the Dark Sceptres è un platform dall’estetica che visivamente rientra, grossomodo, tra la quarta e quinta generazione di console casalinghe. Ciò vorrebbe dire che avrebbe potuto girare, non senza qualche difficoltà latente, su un Sega Mega Drive o Super Nintendo. Ma non senza lasciare perplessi a causa dei bassi valori di produzione percepiti, in un’epoca come quella, in cui semplicemente mancava il concetto di sviluppatori privi di risorse commerciali ingenti. Ogni singola esperienza interattiva rilevante, nell’epoca d’oro dei 16 bit, era il prodotto di potenti compagnie. L’esperienza fallimentare dell’Atari 2600 e la grande crisi dei videogiochi del 1983, infatti, ancora gettavano la loro lunga ombra su un’industria diffidente verso la libera distribuzione dei kit di sviluppo. Troppi compagnie produttrici senza scrupoli, a quell’epoca, avevano prosperato dalla buona fede dei costruttori dell’hardware, inondando il mercato di brutte copie, pessimi tie-in e altri presupposti di guadagno faciloni. Per questo trionfavano le major, solamente. E benché fossero trascorsi quasi 10 anni, l’auteur ludico, creatore singolo di grafica, colonna sonora e meccaniche di gioco, era una figura letteralmente inconcepibile; quanto di più simile esistesse, come Shigeru Miyamoto di Super Mario World (agosto 1991) Yuji Naka di Sonic the Hedgehog (giugno 1991), erano dei “grandi vecchi” del settore, posti dove si trovavano soprattutto per la loro capacità di dirigere un complesso progetto d’equipe. E tale situazione proseguì, letteralmente immutata, fino ai primi anni del 2000: praticamente un secolo, nel ramo da cui fioriscono tastiere e mouse.
Ed è qui che inizia il racconto quasi mitologico di Adam Butcher, con il suo approcciarsi a The Game Factory, l’ultima evoluzione del relativamente vetusto software Klik & Play (1994) uno strumento che prometteva, e grandemente agevolava, il titanico proposito di chi volesse dedicarsi a farsi i propri videogiochi da se, senza l’aiuto di nessuno. Cosa che lui fece, eccome. In una miriade di progetti, alcuni poco significativi, altri abbandonati. E poi per questo Grande Prototipo: l’idea di questa epopea fantasy multilivello, estremamente lunga e impegnativa, dalla grafica, se non proprio avanzatissima, certamente complessa. Laboriosa. Ci racconta, nel suo video, di come si fosse ripromesso di rappresentare i personaggi con una fonte di luce coerente a se stessa, quindi rinunciando del tutto alla tradizionale facilitazione dell’effetto mirroring (specchiato) di ciascun sprite (personaggio) quando questo si voltava. E questo non è che un esempio di quante convenzioni lui avesse infranto, di come si fosse inutilmente complicato la vita all’inverosimile, arrivando ad abbandonare quasi per sempre il suo progetto. Le buone intenzioni ne hanno lastricate, di strade come queste. È una sensazione assai condivisibile da chiunque sia mai stato un creativo autodidatta, quel saper fare le cose, non per tecnica acquisita, ma guidati dall’istinto del momento. Come Frodo, il portatore dell’Anello, sperduto tra le cineree mulattiere dell’infausta Mordor, in cerca di un vulcano che si perde all’orizzonte.
Oggi, guidati dal successo di chi è venuto prima, sono in molti a cimentarsi in questa impresa. Riuscendo, addirittura. E non è del resto impossibile, grazie agli strumenti dei nostri giorni, produrre un videogioco out of thin air, per poi distribuirlo sui circuiti digitali, come Steam o gli altri negozi virtuali, per loro stessa definizione aperti agli sviluppatori indipendenti. Qualcuno, pensate! Riesce ad arricchirsi grazie alle sue idee ludiche autoprodotte. Se ce l’avessero detto all’epoca del Klik & Play, probabilmente non ci avremmo (subito) creduto. Ed ormai saremmo stati miliardari, chi lo sa.