Florilegio di una mantide spinosa

Spiny Flower Mantis

Due milioni di abitanti, eppure, ai miei occhi di disincantato viaggiatore, c’era solamente lei. Conobbi Pseudocreobotra tra le assolate spiagge di Tanzania, presso il quartiere di Kurasini a Dar es Salaam, uno dei principali centri urbani dell’Africa Orientale. Sono questi, luoghi di feroci giustapposizioni: da una parte gli altri grattacieli dell’economia globale, frutto degli investimenti poderosi delle aziende d’Occidente. In cerca di nuovi trampolini verso le inesauribili sorgenti della manodopera dei nostri tempi: la Cina e l’India e… Dall’altra, ostinatamente in controluce, le piccole canoe di legno dei pescatori, che dall’ombra della disumanizzante bestia grigia di cemento, l’irrespirabile città, pindarici decollano verso la penisola azzurra di Kigamboni, percependo alla lontana l’aria limpida delle foreste del Madagascar.
Lei era lì, coraggiosa come un fiore in mezzo ad una strada trafficata. Anzi, ne aveva proprio preso il posto: in cima ad una rametto, posto dietro ad un cartello, sulla banchina del tragitto verso le periferie poco raccomandabili, si dondolava lievemente, assecondando il dolce vento della tarda primavera. Era giovane e spinosa, lunga due centimetri soltanto. Senza occhi sulle ali. Di certo, il fato aveva predeterminato il nostro incontro: neanche una mosca della frutta, con il suo senso dilatato dei secondi, avrebbe mai potuto percepire quel suo sguardo attento, salvandosi dall’abbraccio più definitivo della vita; l’ultimo sarebbe stato, per quell’imenottero sbadato. Ero davvero stanco, quel giorno, forse per l’effetto del jet-lag. O magari solamente senza fiato, a causa della mia tenuta, più inadatta del costume da bagno a Capodanno, vista l’aria tanto equatoriale: il peso della giacca sottobraccio, i calzoni neri e lunghi, la camicia con cravatta nel taschino, ormai rimossa, eppure non dimenticata. Pronta come il calcio di un fucile, da estrarre innanzi ai miei supervisori. Per non parlare di quei piedi chiusi nelle scarpe lucide, praticamente cementate ai miei calcagni, per l’effetto di cinque riunioni, due incontri, una supervisione in fabbrica e la cena con i manager del business district nel più celebrato ristorante giapponese di Kivukoni. Sushi e sashimi: Africa, che calor! Dunque passeggiavo per un tale lungomare, circondato dai turisti e dai locali, cercando svago prima dell’ennesima Giornata. Quando, oibò. All’improvviso si slacciò la scarpa destra. Dapprima, non feci nulla di affrettato. Non è saggio, in tali luoghi sincretistici, fermarsi in mezzo al flusso della folla brulicante. Troppi vivono in un costante stato di fretta, quel senso di anélito spietato. Non si fermano a guardare i fiori. Lentamente, un passo dopo l’altro, raggiunsi un’oasi calma tra la folla, sotto ad un cartello in arabo che sembrava, all’apparenza, proprio come gli altri: “Benvenuti a Mzizima, la Casa della Pace” E sotto a quello, la trovai…

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Lo Zio Sam dei nostri giorni non indossa una tuba coi colori americani. Né alcun altro tipo di uniforme. Ma il suo dito insistente, uncinato attrezzo della selezione, punta sempre bruscamente innanzi a lui: “We need YOU”. Sei speciale, sei necessario, sei l’individuo salvifico di questo mondo. L’unico prescelto: “Imbarcati nell’avventura di una vita, giovane [ingegnere]” Ancora ricordavo il motto di quel vecchio, udito chiaramente il giorno dell’attesa laurea: “Diventa un tecnico al servizio dell’industria del petrolio. Gli stipendi sono alti. L’ambiente ricco di opportunità di crescita. E poi, soprattutto: Girerai Il Mondo!™”
Non che avesse avuto un solo grammo d’insincerità. Questa è la forza del concetto di carriera, che ti spinge avanti, implacabilmente alla ricerca di qualcosa. Finché non la trovi, sopra ad un rametto, dietro ad un cartello per turisti, a Kurasini, Dar es Salaam, Tanzania. Simili pensieri si affollavano nella mia mente, all’ultimo piano dell’hotel Regency con vista oceano a Mogororo Blvd. Ruotava appena la fumosa pala del ventilatore sul soffitto del mio cranio, Apocalypse Now. Benché il freddo della stanza fosse assai maggiore di quell’altra cinemagrafica, grazie all’apporto ultramoderno dell’aria condizionata. Sul mio tavolo, c’era Pseudocreobotra, che mi fissava con un certo languorino. Wikipedia, a me!
La mantide fiore spinoso, come avevo appreso grazie a Internet, cambia notevolmente nei diversi stadi della vita. Nasce in primavera, con l’aspetto di una risibile formica nera. Unico indizio della sua vita futura, le due zampe graziose zampe aculeate, simili alle spade di un aspirante ninja-cyborg. A un certo punto compie la sua muta una, due, tre volte. L’addome ruota di 180 gradi. L’insetto diventa gradualmente un po’ più grande. E pericoloso, a suo modo. Virtualmente immobile, come i fiori a cui assomiglia tanto, ghermisce mosche, moscerini, persino api di passaggio, per raggiungere lo stato della sua maturità. E con esso, l’uso esclusiva di un’arma difensiva nuova. Occhi giganteschi sulle ali, da agitare, all’occorrenza, verso grossi predatori. Come un dito umano accusatore, usato un po’ per gioco, un po’ con malizia scherzosa, al solo fine di causare l’incredibile trasformazione.

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Percentuali acquifere del suolo. Gradienti di trivellazione. Resistenza strutturale dei montanti trasversali. Incidenza probabilistica di prospezione. Organizzazione delle forniture di energia. Queste cose, assieme ad altre similari, furono gli ingredienti principali, per me, di una prima forsennata estate. E imparai molto, durante il successivo anno di approfonditi sopralluoghi in Africa, Stati Uniti ed Asia. Perdendo molto, in cambio. La passione per i componimenti filosofici e la poesia. Il tempo libero per dedicarmi ad escursioni esplorative, libero da preconcetti, ovvero quell’ambrosia quotidiana, di chi voglia definirsi veramente viaggiatore. Non semplice “inviato” per lavoro.
Ma quello era ancora l’inizio, e c’era tempo di sognare. Ogni sera ritornavo, stanco, qualche volta brillo, in quella stanza di albergo in cui avevo introdotto abusivamente la femmina pseudocreobotra wahlbergi, la magnifica mantide fiore spinoso. La tenevo ben nutrita, al caldo, gli facevo compagnia. Era felice ed io con lei. Finché un giorno, verso agosto, non capii… Che gli mancava qualche cosa. Lei giaceva annoiata in un’angolo, guardandomi con occhi pieni di rimprovero. Come avevo potuto pensare che un organismo come questo, un insetto tanto splendido, persino in cattività, potesse rassegnarsi a non condurre…Innanzi ciò che costituiva la sua stessa ragione di esistenza? Intendo il suo patrimonio genetico, ovviamente. Così presi una borsa e uscii dall’alto portone del Regency, sulla strada principale vista oceano di Kivukoni. Ero risoluto. Un mio collega mi aveva segnalato un luogo, lì vicino, dove vendevano animali esotici ed insetti, tra cui ragni, scarabei e imponenti millepiedi. Chissà se avranno mantidi-maschio, mi chiesi in quel momento, e quanto siano coraggiosi quei minuscoli stalloni…

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Lasciai la Tanzania verso i primi di settembre. L’anno in cui si svolse l’avventura non me lo ricordo, e poi del resto, cosa importa? Tutta questa storia la ricordo appena. Potrebbe essersi trattato di un sogno indotto dai residui imprescindibili della memoria, sopraggiunto ai margini della coscienza, per l’effetto di un ronzare udito verso sera, di falene, pipistrelli, vespe muratrici. Ciò che so per certo, ad ogni modo, è che l’amata mantide depose la sua sacca delle uova.
Ancora visualizzo chiaramente, se richiudo gli occhi, quel momento di un incontro sopra il filo del rasoio, della nostra beau col suo povero compagno, tanto piccolo e indifeso al suo confronto. L’affare fu rapido e indolore, tutto considerato. Due attimi, un lampo di luce, una testa che rotola di lato. Amanti per passione, vedove per scelta, sono queste splendide creature. E i loro artigli non perdonano, neanche nel momento della gioia per eccellenza, la consapevolezza di aver fatto quello che dovevano. Il culmine di una carriera sulle strade della  vita: dopo 3, 4 mesi di vita, ad altrettanti dalla fine, quando fortunate, le mantidi fiore spinoso, se ne ricevono l’opportunità, si riproducono. Uccidono. Poi ricoprono le uova di una speciale saliva, per proteggerle dai freddi mesi dell’inverno. Lei fu fortunata. Lui, un po’ meno, ma gustoso. Cosa facciano dopo quel terribile momento, quell’esperienza dell’amore cannibale per eccellenza….Questo non lo so. Forse tutto ciò che viene dopo, per loro, è soave tempo libero, oltre i doveri dati dall’evoluzione, per coltivare le passioni e l’arte dell’insettile poesia. Avete presente Baudelaire?

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