Che l’infinito possa veramente definirsi inconoscibile, nonché inavvicinabile da mente umana, è uno dei più tragici fraintendimenti dell’empirismo. L’infinitamente grande può essere scrutato con un telescopio. E l’infinitamente piccolo…. Basandosi soltanto sulla forza ponderosa della teoria matematica, il prodotto derivante dalla mente pura, chiunque fallirebbe nel comprendere l’epocale esperimento delle doppia fenditura. Flussi concentrici, particelle? Oppure tutte e due le cose, a seconda del minuto? Finché la realtà stessa non diviene come un’onda fuori controllo, da cavalcare sulla tavola periodica degli elementi. Fu, questa dimostrazione, la trovata senza precedenti di un singolare individuo, Thomas Young della Royal Society di Londra, ovvero colui che, sul principio del XIX, fu il precursore di una scienza Nuova. Quella che, fra tutte quante, rassomiglia maggiormente alla filosofia: la meccanica quantistica, stregoneria dei nostri tempi.
Non che lui avesse mai provato a definirla in questo modo. Semmai l’esigenza problematica, per lui, fu guidata dalla necessità di contraddire un gran maestro: nella stessa Inghilterra di suo padre, quacchero convinto, c’era stato l’uomo della Mela. Non Steve Jobs (mancavano parecchi anni) bensì Isaac Newton (1642-1727) lo scienziato con i femori incrociati sullo stemma, longevo, prolifico, l’arguto sperimentatore, alchimista misterioso, presunto inventore dell’analisi numerica, alias geometria descrittiva alias calculus. Leibniz permettendo. Figura che, da genio quale era, operava in molti campi. Non fu questo il primo caso di un polimata, ne certamente l’ultimo. Di contrario la natura di una simile figura, per noi italiani, è immediatamente associabile ad un preciso nome con tanto di toponimo: Da Vinci, Leonardo. Siamo stati infatti condizionati, soprattutto dallo studio del Rinascimento, a collocare le mentalità profondamente poliedriche, almeno in parte, nel regno delle discipline umanistiche o liberali. Come se lo studio del disegno, questo modulo di raffigurazione delle cose, donasse un senso di comprensione totale, fin da subito applicabile nell’arte scultorea, pittorica e infine, quasi incidentalmente, nell’invenzione delle cose pratiche per tutti i giorni. Ciò facilita il progresso, di parecchio. Perché quando uno scienziato puro viene percepito come l’uomo universale, che si staglia maestoso contro lo sfondo fulgido delle galassie, il suo lavoro si trasforma in sacro verbo, fin troppo difficile da confutare. Questa è fossilizzazione: l’aver avuto un predecessore in grado di enunciare spledide teorie, tanto accattivanti da poter contraddire l’evidenza. Cosa che avvenne almeno in un caso: l’Etere Luminifero, presunta inconoscibile sostanza, l’errore più vistoso di quell’uomo.
Galeotta è sempre la teoria, non la prassi dell’esperimento. Se provi una cosa oltre ogni confine concepibile del dubbio, allora puoi star certo che sia vera. Purtroppo, non è sempre possibile procedere in un tale modo. Nel XVII secolo, Robert Boyle (1627-1691) aveva affermato che: “C’è sempre un flusso delle cose che interagiscono tra loro, anche nel vuoto assoluto. Dunque, se non vi fossero sostanze più sottili dell’aria, come sarebbe possibile spiegare il magnetismo, la luce e la gravità?” [parafrasi] Per analogia con le antiche discipline filosofiche, egli chiamò la sua impalpabile creatura l’Etere. Su questam dunque, si andò avanti, divergendo ulteriormente dalla verità. Fu così che nel suo laboratorio, l’esimio successore Newton dimostrò la capacità della luce di viaggiare in linea retta, assieme al fenomeno della riflessione – ovvero il rimbalzo sulle superfici a specchio. Ciò provò immediatamente, agli occhi dei suoi contemporanei, la natura stessa della particella: l’odierno fotone, quantità non misurabile, che fluttuava con precisi metodi nell’etere immanente. Eppure, rimanevano dei problemi alquanto significativi. Come mai la luce, penetrando nell’acqua, variava nel suo corso? E perché le membrane sottili, come l’ala di un insetto, restituivano i sette colori dell’arcobaleno? Erano questi, rispettivamente diffrazione e della rifrazione, misteri che restavano insoluti, per l’effetto di una simile teoria. Immaginatevi una biglia indivisibile lanciata contro una parete. Questa potrà infrangersi, oppure rimbalzare. Non entrambe le cose allo stesso tempo. Eureka! Ora, state pensando proprio come Thomas Young. Individuo, anche lui, dai molteplici interessi, compresa l’egittologia.
La doppia fessura, secondo i resoconti coévi, si spalancò all’incirca intorno al 1800, con la rilevante pubblicazione dei risultati da parte del nostro eroe, presso il convegno della Royal Society, l’anno esatto successivo. Con tante grandi menti, riunite sotto l’egida benevola di re Giorgio III, del neonato Regno Unito, restarono basite innanzi all’evidenza. Ecco la prova straordinaria, inconfutabile, che la luce non si comporta come fosse fatta di un gran numero di particelle. Ma piuttosto rassomigliava alle increspature concentriche dell’acqua, che si sviluppano quando essa viene colpita da un comune sassolino. Ringraziamo l’esperimento. Young aveva creato il suo apparato in questo modo: una fioca fonte di luce, posta dietro ad uno schermo, che penetrava appena attraverso due minuscole feritoie, contro un muro bianco. E osservando attentamente il risultato, aveva notato che…
Ritorniamo all’utile analogia della biglia. Immaginatevi un cannone che ne spari un grande numero, in maniera casuale, contro due aperture verticali. Dietro ad esse, metteteci una pratica parete di polistirolo. Le biglie, che ammaccano la superficie, cosa dovrebbero produrre? Ovviamente, due aree convesse in corrispondenza dei rispettivi varchi, naturale conseguenza del bombardamento. Ecco, con le presunte “particelle luminifere” non avvenne niente di così ovvio. Tutt’altro! Dinnanzi a Young si manifestò, piuttosto, una successione di linee luminose, distanziate ad intervalli regolari. Come se qualcosa avesse interferito, laddove niente, in assoluto, avrebbe mai dovuto farlo.
La verità fu subito lampante. Ciò che i nostri occhi vedono, dinnanzi a una candela, o alla moderna lampadina, sembrava piuttosto come un’onda concentrica, dalla propagazione a pianta circolare. Perché dividendo una simile cosa in due parti, ciò che si ottiene non sono sezioni della sua circonferenza, ma sue copie meno incisive, altre piccole onde a semi-cerchio, che a loro volta procedono nella specifica direzione. Dunque, se la fonte di luce è sufficientemente tenue, ciò che noi vediamo sul muro oltre le titolari fessure non sarà l’intero profilo delle due onde-eredi principali, bensì i punti dell’interferenza reciproca, permutazioni ripetute dei due punti di passaggio, tendenti a scomparire verso i lati. Che sopresa, ragazzi. Non c’erano microscopi elettronici a quell’epoca, per grande fortuna di Thomas Young. Perché noi sappiamo, a partire dal 1926 (grazie, Frithiof Wolfers!) che il fotone, in effetti, esiste. Sarebbe, una tale meraviglia, la particella elementare, ovvero un “quanto” stesso di materia, meno simile ad un atomo, che un batterio procariota lo è rispetto a un cane. E che quindi l’analogia delle biglie, alla fine, non era poi così sbagliata. Aveva ragione Newton? Non proprio.
La candela di Young, nei fatti provati, stava davvero proiettando “biglie”. Le quali andavano oltre le due aperture. Per poi produrre… il segno dell’interferenza ad onda. Co..Come può essere? Ecco, adesso viene il bello. Questa è la stregoneria di cui stiamo parlando, IL SEGRETO DELL’UNIVERSO STESSO. Nella meccanica dell’infinitamente piccolo esiste una fondamentale flessibilità, di ciò che avviene in un peciso momento X. La stessa cosa può essere in un luogo, eppure in uno completamente differente. Un gatto può vivere o morire, morire o vivere, finché la scatola non viene aperta. E la biglia, posta innanzi a due fessure tra cui non sa decidere, perché non ha mente pensante, si sdoppia e le attraversa entrambe. Ah! Non sto scherzando: è un fatto ampiamente dimostrato. Funziona anche con gli elettroni, o persino grosse molecole dal peso niente affatto indifferente. Se andassero abbastanza veloci, probabilmente, così farebbero anche le biglie. Ciò restò assodato. Finché a qualcuno non venne l’idea di osservare la particella, mentre passava oltre le due fessure, grazie a particolari strumentazioni ultramoderne. Perché allora… Siete pronti? Piuttosto che produrre l’onda, i punti attraversati generano le corrispondenti zone d’impatto, una ciascuna, come suggerirebbe l’evidenza. Siamo tornati agli eteri luminiferi Newtoniani, solo per l’effetto di uno sguardo. A quanto pare, la meccanica dei quanti funziona proprio come una mente che tenti di ricordare una perduta verità. Qualcosa che sovviene ai margini della coscienza, chiarissima in teoria ma che poi svanisce, quando si cerca di ricordarla più in dettaglio. La conoscienza umana, che influisce sulla pura realtà. Se non è questo un lume rivelatore, su chi siamo e da dove veniamo, ditemi voi. Nel frattempo, io vado (a vagliare pianeti invisibili tra vaste nebulose).