A vedere questa ragazza vietnamita con due martelli, mentre suona il suo litofono ancestrale, sovvengono questioni stravaganti. Come questa: chi l’avrebbe mai detto, che rock è un genere, ma anche uno strumento! Nascosto nelle viscere magmatiche di questo mondo c’è un macigno così pesante, grosso e denso da resistere alle forze delle epoche trascorse. È lucido ma opaco, smussato ai bordi, eppure frastagliato. Nessuno l’ha mai visto, né sentito. Ha molti nomi e due pronomi, poiché racchiude Venere, femminea, ma anche Marte, il vigoroso. Tale roccia monolitica ed immota, se percossa col martello, produrrebbe un suono tanto preminente, così accattivante, da poter svegliare draghi ed unicorni. Per secoli e millenni la soave pietra, bella e maledetta, è stata al centro dei pensieri e delle gesta degli esploratori, armati della zappa, della corda del piccone. Mentre narratori e menestrelli, con la penna e con la cetra, l’hanno tratteggiata pure troppe volte, tramite parole dalla dissonanza sovversiva. Maledette malelingue. Cerca e scrivi, sfrega e stridi, siamo giunti a questa conclusione: questa qui è la Volta, il Paragone. Se davvero fosse mai trovata, tale stele, se qualcuno la suonasse, nascerebbe l’universo. Con un doppio tonfo sordo, in sovrapposizione a quello già esistente! Un disastro senza precedenti. Ciò che serve per la mente non è quella originale ma una copia, l’approssimazione.
Nulla si crea e niente si distrugge, tranne le note di una qualsiasi melodia. Termodinamica permettendo, certe vibrazioni sono figlie di due fonti ben distinte: una è la mente, l’altra l’energia. Non puoi contare i tuoi neuroni, da vivo. C’è un contenuto di pensieri che si aggiunge a quell’oscillazione di atomi e ossicini, dentro al tubo misterioso dell’orecchio umano. Giustappunto, furono i nostri antenati ad inventarla. La musica. Come il fuoco, acquisito per associazione dalla furia elettrica dei temporali, anche il suono armonico è stato ripreso dalle cose preesistenti. Che affioravano placidamente, sotto i piedi, senza voce ma ricche di precipue possibilità. Difficile intuire chi l’abbia capito prima, dietro a che confini, sotto quale sole. Però ebbene, in Vietnam, prima delle antiche civiltà, alcune culture montanare erano solite scavare delle pietre assai particolari…
Nelle province di Kon Tum, Lâm Đồng, Gia Lai, Đắk Lắk e Đắk Nông, si credeva che gli dei gioissero del canto delle ere. E che questo suono magistrale, in qualche modo, si potesse riprodurre a piacimento. Tramite l’impiego delle pietre diabasiche o le doleriti, tutti quegli ammassi sub-vulcanici che in qualche maniera, molto lentamente, riaffioravano dall’invisibile profondo. Questi messaggeri della Pietra Prima di cui sopra, dunque, venivano raccolti, forati e appesi a solide strutture, in legno massiccio, in bronzo e altri metalli. Poi li percuotevano spietatamente, con mazzuoli e martelletti, nelle danze e nelle feste delle antichissime tribù. Naturalmente, non tutte le rocce valevano allo stesso modo. C’erano quelle sovrane e quelle più mondane, ben distinte in base a forma e provenienza. Dopo ciascun rituale sciamanico, i macigni venivano riposti nello scorrere dei fiumi. Si ritiene, infatti, che bagnate avessero un suono migliore. Senza calcolare quell’apporto arcano, delle ninfe acquatiche o degli altri spiriti sorgivi.
A tal punto, il passaggio dal gong ai veri e propri idiofoni, gli strumenti complessi privi di membrane vibranti separate, era chiaro, se non breve. Era lo stesso principio dello xilofono, dopo tutto. Fu così che nacquero i đàn đá, attrezzi come quello di apertura, definiti per l’appunto dai termini đàn (strumento) e đá (pietra). Sistemi come questo sono stati ritrovati, negli ultimi 50 anni, in regioni anche distanti tra loro della costa vietnamita. Potrebbero essere tra i più antichi e complessi dell’Asia sudorientale, se non del mondo intero. Consistevano di un numero variabile tra nove e dodici pietre levigate, di varie forme, ciascuna in grado di produrre una nota differente, quando colpita. La loro datazione assai difficoltosa, nonché l’uso rituale poco chiaro, ci hanno impedito di posizionarle cronologicamente. Alcuni studiosi le fanno risalire a circa 2.000 anni fa, mentre altri, avendole associate alla cultura definita Hòa Bình (10.000 a.C.) le allontanano sei volte tanto, rendendole coéve alle improbabili avventure atlantidee filmate dal regista americano Roland Emmerich.
Strumenti litofonici di epoche successive, diffusi parimenti nella Cina ed in Corea, prevedevano che le pietre fossero appese in verticale, come nei già citati gong, ma in sequenza, l’una dopo l’altra. Non è noto se questi ultimi, detti bianqing o pyeongyeong, provenissero dall’Indocina vietnamita, o fossero stati sviluppati in parallelo, sulla base delle stesse idee. Ciò che è certo, nonché inevitabile, è che oggi tali oggetti siano molto amati dai turisti. C’è un intero genere musicale popolare, il Nhạc dân tộc cải biên, che tenta in qualche modo di ridargli nuova rilevanza.
È stato spesso criticato, per la sua presunta poca accuratezza storiografica.
Reta aperto a molte interpretazioni, questo fatto della nota singola che scaturisce nello stesso modo in Asia, Europa, Africa e Oceania. Un mistero minerale. Forse la ragione è di nomenclatura: categorizzando tutti i suoni, siamo giunti a riconoscerli per esclusione. Oppure c’è un ordine costituito nella forma delle cose, che prevede che su dieci pietre, almeno una sia accordata in Sol. Da ciò deriverebbero le altre, volta per volta..
E se invece…Ce ne fosse Una? L’unica, la somma gemma inconoscibile, sepolta sotto chilometri di ghiaia? Se tutte fossero sue figlie, dal ciottolo alla rapide alla rupe? La lapide sarebbe un testamento. E il suono dello scalpellino, che la incide laboriosamente, il principio di una nuova sinfonia.