La dieta ha effetto sui colori e sui criteri. L’orso marsicano, dal pelo bruno e fulvo, suscita un sincero senso di preoccupazione, anche se si nutre per il 90% di piante, bacche, tuberi e radici. Il problema è quel che resta di percentuale. E invece, il panda gigante! Grazioso beniamino bianco e nero, occhi dolci, ventre tondo di germogli poco nutritivi, viene visto come un disinteressato amico dei bambini. Soprattutto in Cina, dove mangia solamente piante di bambù, mai mammiferi e carcasse, cose che talvolta apprezza quel consimile d’Italia, soprattutto se affamato. Non vorremmo mai vederlo tale.
Anche il mochi, un certo glutinoso dolce giapponese, ha più colori. Diciamo almeno due: normalmente nasce bianco, come il riso da cui è stato metamorfizzato, per il tramite di due martelli, qualche pugno, la sapienza dei benefici antenati. A Nara, tra gli antichi templi del maestoso Buddha Vairocana, viene invece fatto verde-crema, grazie alle foglie di artemisia che rimpastano tra i chicchi appiccicosi. Mai e poi mai ci lascerebbero gli insetti, sulle piante, in quel patrio mondo culturale dove gli artropodi, ebbene si! Li amano, ma con gli occhi e non la bocca (quanti bambini fanno “combattere” i preziosi scarabei, Pokémon del mondo materiale…). Infatti Abaum Getsjiggy, nel notevole frangente riprodotto in questo video, ovunque poteva trovarsi, tranne che in Giappone. Siamo invece per le strade della terra del Kung-Fu, nonché dei panda già citati, dove si mangia spesso sotto il cielo di un eterno ristorante, però qualche volta, va detto, usando il proprio senso del coraggio. Occorre decidere con lo strumento dello sguardo.
Cucinare vuole dire infondere se stessi nella pratica di sublimare gli elementi, dare sfogo al karmiko potere delle mani. Come nelle arti marziali, dove la cintura colorata è un simbolo di gradi guadagnati, dal grembiule puoi capire molte cose. Al possibile turista sinologo del futuro, io darei un suggerimento: chi ha sul rosso vivo il simbolo del gatto coi due occhi strabuzzati, a guisa di stemma, è certamente una figura da tenere in alta considerazione. O almeno così sembrerebbe, a giudicare dal presente video.
Difficile capire la ragione di una tale brulicante scena. Forse un alveare, costruito al volgere delle stagioni, ha iniziato d’improvviso ad esplorare i suoi dintorni. E il/la cuoco/a, piuttosto che spostarsi un po’ più in là, ha ben deciso di farselo amico, offrendo la sua merce alle operaie mietitrici, tra una pausa pranzo ed il ronzio della sirena. Questo è marketing! Oppure, come in un solenne rituale, le api le ha chiamate grazie ad una musica insinuante, la solenne melodia di un flauto effimero e mondano. E tutte quelle dame ubriache, frenetiche, sono accorse per il pasto mai provato prima!
Ad ogni modo, come dicevamo, è tutta una questione di colori, che governano i criteri. Se invece che graziose gialline ci fossero stati i classici mosconi neri, a quel banchetto, chissà in quanti avrebbero storto la bocca. Eppure è proprio quella, la divina origine del miele. Nettare rigurgitato da sei-zampe-con le-ali.
La preparazione del dolce in oggetto, d’altro canto, come nel caso di molte altre pratiche nipponiche, è un rituale attentamente codificato dalla convenzione. L’occasione di partenza viene detta, alquanto appropriatamente, mochitsuki. Ed è associata alla festa per il nuovo anno solare. Non lunare, come si usa in Cina, con l’apporto di diverse delizie stagionali. Il mochi ad ogni modo, soprattutto in alcune località, viene consumato in tutti i momenti in cui si ha voglia, dal primo all’ultimo dei mesi. Non è come il panettone, quasi mai venduto nei supermercati. L’ingrediente di base sarebbe il riso dolce (o riso appiccicoso) tradizionalmente tratto dalle varianti giapponesi della pianta oryza sativa. Il basso contenuto di amilosio, lo zucchero polisaccaride, concede a tali chicchi una particolare cedevolezza. Nell’idea del cuoco, servirebbe a renderli più malleabili. Cosa che si ripercuote nella consistenza dell’impasto, che viene fatto dentro ad un ponderoso mortaio, detto usu. A questa monolitica postazione lavorano due operatori, artigiani dai precisi ruoli: il primo, con un martelletto ligneo, il kine, pesta il riso fino a renderlo un tutt’uno. Il secondo lo umidifica con l’acqua, schiaffeggiandolo sonoramente. Va da se che tale procedura, così laboriosa, sia riservata a casi assai particolari, oppure nei grandi e prestigiosi ristoranti. In casa propria o per le strade, il mochi viene fatto con le macchine o col mattarello, la nostrana katana della pizza. Il dolce in se, piuttosto insapore, viene quindi farcito coi ripieni più diversi: oltre alla marmellata dei fagioli di soia rossa azuki, si può usare il burro di noccioline, frutta o crema ben sbattuta. Si può usare la Nutella, soprattutto se si è italiani, e del resto perché no. Nel caso del video di apertura, alla fine, le api non facevano poi una così brutta fine. Volando via prima dell’ultima fase, lasciavano il posto a molto zucchero e qualche nero seme di sesamo, abbandonato. Niente condimento innominabile in un tale cibo, per fortuna. Benché sia lecito farsi qualche domanda.
Mangiare il dolce tipico di un popolo lontano è un’esperienza viscerale, che avvicina lo stomaco alla mente. Per certe persone amanti dell’Oriente, simili sapori hanno un significato mistico e soave. Mangiarli, idealmente, li trasporta tra le pagine di un manga. Chissà se là fuori esistono degli entomologi, appassionati apiari, che un mochi come questo se lo sognano da anni. Vorrei vederli su YouTube, mentre lo trangugiano con entusiasmo! Sia l’orso marsicano, loro testimone. E il panda col bambù tra i grossi artigli, pensieroso.