Le grandi opere nascono dal nucleo di un’idea, quindi bruciano l’idrogeno e i metalli, il neon, lo zolfo e le sostanze dello spazio siderale. Crescono all’inverosimile tra fulmini e lapilli, vortici di fuoco che diventano giganti rosse o quasar. A volte, invece, buchi senza fondo. La musica è così del resto…Lo sono molte cose, anche le stelle. 6900 anni prima della distruzione della Morte Nera, i Jedi affini al lato oscuro della Forza, come involontari pellegrini, giunsero tra i freddi canyon del pianeta Korriban, tra belve infernali e i resti di un’antica civiltà. In esilio prosperarono, forti ed immortali, raggiungendo quasi la divinità. Ma corrotti da un’antica forma di stregoneria, scelsero un appellativo foriero di disgrazie. Quei vermigli Sith, tiranni del futuro e del passato, vendicativi; rovesciando la Repubblica della galassia di George Lucas, inseguirono una fine senza gloria. Sulle note orchestrali di John Williams, oltre al suono elettrico di molte spade laser.
Lo strumento musicale più possente del mondo, al giorno d’oggi, sarebbe alquanto deludente. Un tablet collegato ad un computer, quindi all’amplificatore, che riversa il campo elettrico sonorizzato, ad esempio, dagli altoparlanti posti su di un palco, note alte oppure basse, sempre tutte quante aggrovigliate da un attento manipolatore. Ed è difficile capire, se questo sia lo zenit di quell’arte, oppure il nadir più profondo, degenerazione di un’epoca più nobile, in cui il musicista usava il gesto, non il trucco digitale. Molto prima del DJ, dei mixer o della pistola blaster, c’erano strumenti armonici eleganti. Talmente “limitati” che, ohibò! Per trarne una sinfonia ce ne volevano dozzine: ottoni, flauti, corni e trombe dentro ad una fossa. Arpe, timpani e sassofoni, innanzi al pubblico rapito. Magari pure un pianoforte, e poi su tutti, a comandare, il gesto ipnotico di una bacchetta, strumento del potere, la verga dell’esercito dei cloni. Talmente piacque, tale configurazione, che ancora è in uso nei teatri più famosi.
Però non tutti e soprattutto, non questo: perché il Sanfilippo Theatre, presso la città di Barrington, Illinois, tiene l’Organo di Wurlitzer #1571.
Che cos’ha di speciale, questo ponderoso strumento? Tutto, praticamente: un set completo di canne diafone da 10 metri e un altro di bombarde, per buona misura, in 52 mostruose schiere scintillanti. Trentadue campane da torre appese tutto intorno, la più grande delle quali pesa circa 200 chili. Neanche l’ombra di un gargoyle. In fondo alla stanza, le trombe eteree e i corni da battaglia. Proprio accanto, inoltre, c’è la fedele copia di un pianoforte Deagan a percussione, controllato da remoto. Facilmente, addirittura: questo Wurlitzer, della tipologia mighty (possente) ha appena cinque tastiere, tredici pedali e più pulsanti del Millennium Falcon. Oltre a un solo, potentissimo, cervello, quello di Jelani Eddington, in questo caso. L’uomo sopra lo sgabello più scomodo di tutto il mondo musicale? Di sicuro, non in molti potrebbero occuparlo, almeno senza l’adeguata percezione della Forza. O un viaggio presso Dagobah, per addestrarsi in acqua di palude.
La Rudolph Wurlitzer Company è stata una celebre compagnia americana, operativa fino al 1988, che produsse molti tipi di strumenti e soprattutto gli organi migliori del periodo, portatili e a barile, regolari oppure grandi, enormi. È una leggenda che si origina nell’epoca dell’elettricità. Quando, intorno alla fine del XIX secolo, cambiò il modo di far musica. E raccontare storie, grazie alla magica laterna di un potente proiettore.
Si racconta di come Robert Hope-Jones (1859-1914), nato ad Hooton, nel Cheshire, avesse lavorato da giovane in una compagnia telefonica d’Inghilterra, prima di definire i termini del suo più grande sogno. Ovvero, che un organo potesse sonorizzare l’intera cavea di un teatro, senza nessun tipo di assistenza, seguendo i movimenti musicali di un solo musicista – praticamente un Luke Skywalker! Delle orecchie tese ad ascoltare. A lui, soltanto, si attribuiscono un gran numero di innovazioni tecniche, ancora in uso nella maggior parte degli organi teatrali o da chiesa: tra queste, la tipologia di canna detta tibia clausa, l’azione elettro-pneumatica di alcuni componenti e i drawknobs, le caratteristiche manopole a estrazione, ciascuna collegata a un qualche arnese di accompagnamento. Fondata la sua compagnia nel 1877, a fronte di un valido investimento, ebbe modo di realizzare i suoi prototipi più promettenti. Poi crebbe, ancora e ancora: di organi ne produsse ben 243 da un singolo stabilimento. Grazie a prestazioni mai viste prima, questi colpirono i paesi dell’intero continente europeo finché, sospinti dal vento inarrestabile di fin troppe canne, giunsero nella remota America. Terra fertile e incontaminata. Hope-Jones, che al suo zenit ebbe ad impiegare più di 100 dipendenti, scelse quindi di associarsi con la Rudolph Wurlitzer Company, una neonata e forte fabbrica di Cincinnati. Era il 1914. Poco dopo, appena compiuti i 55 anni, si suicidò.
Il più grande organo elettrico mai costruito è custodito presso la Radio City Music Hall, nel Rockfeller Center di New York. E qualcuno potrebbe ben vedercelo, con la sua possenza musical-apocalittica, in questa sacra mecca dell’oggettivismo culturale. Poco dietro l’emblematica statua di Atlante, presumibile capitalista che sostiene il mondo. L’ennesimo simbolo di un’opulenza tecnologica, di uno stile d’intrattenimento senza limiti di risorse; un’emblema che rivive, immutato, nei possenti opus della cinematografia dei nostri giorni. Alle Guerre Stellari di George Lucas, di sicuro non mancava la grandiosità.